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Non volendo piangere, si doveva ridere!

La grande avventura di «Diario», una rivista così personale che poteva chiamarsi solo così. Dieci anni di interminabili chiacchierate fra Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, fiduciosi nelle proprie insofferenze dall’estate del 1983. Qui il formidabile ricordo

Nel caso improbabile che qualcuno mi chieda di scegliere un libro da mettere al primo posto fra quelli usciti nell’ultimo anno, non avrei dubbi: è il Diario del Novecento del mio amico Piergiorgio Bellocchio, che ora non c’è più. Sono pagine private e inedite scritte dal 1980 al 2000 e scelte da Gianni D’Amo, che ha curato il volume per il Saggiatore. È il libro che più di ogni altro merita di concludere il Novecento letterario italiano. Ma non riesco a dimenticare gli anni in cui con Piergiorgio pubblicammo i dieci numeri di un altro Diario, una rivista così personale che poteva avere solo quel titolo.

Era il 1982, mi pare. Si era appena conclusa una delle ultime riunioni dei Quaderni piacentini, che Piergiorgio aveva fondato venti anni prima, e fu lui a prendermi da parte sorprendendomi con questa frase: «Adesso di rivista bisognerebbe farne un’altra». Lo stava dicendo a me e la mia sorpresa era precisamente quella: perché proprio a me? La maggior parte del comitato direttivo dei Quaderni piacentini era lì presente, ma certo Piergiorgio stava pensando a qualcosa di così incompatibile col passato che non poteva interessare nessuno dei presenti. Mi chiesi subito che cosa immaginava e perché il mio autorevole amico sembrava così deciso a fare altro. Della nuova rivista non riuscivo a intravedere né forma né contenuto: e ancora meno le prospettive, il pubblico potenziale e quindi lo stile.

La situazione e l’ordine di pensieri da cui nel 1985 nacque Diario ora li si trova descritti in alcune pagine di Diario del Novecento. Riflettendo su due diversi, opposti tipi di intellettuale che si stavano alternando in quegli anni, Piergiorgio pensava di nuovo al primo problema, quello del dove scrivere e del per chi si scrive: «Già nella seconda metà degli anni Settanta si avvertiva da parte di quasi tutti i redattori un progressivo esaurimento della funzione di Quaderni piacentini. La crisi stava innanzitutto fuori della rivista: era la situazione politica generale e in particolare la crisi della Nuova sinistra e dei movimenti sociali (…) Riducendosi l’azione politica e sociale esterna veniva a restringersi quasi automaticamente anche l’area di ascolto (…) Incideva naturalmente l’invecchiamento dei redattori e l’accademizzazione di alcuni (…) Fosse dipeso solo da me, avrei chiuso anche qualche anno prima. Provavo un certo disinteresse – disaffezione, persino insofferenza – per una rivista che diventava via via più saggisticamente accademica (…) Ormai Quaderni piacentini era una rivista non molto diversa dal Mulino (…) Non si faceva più politica ma politologia» (p. 110).

Piergiorgio aveva già fatto qualche esperimento giornalistico. Aveva collaborato con Panorama (un pubblico virtualmente senza confini ma di fatto indefinito e inerte) e poi con Illustrazione italiana e Tempo illustrato, un tentativo di rilancio di due testate classiche a cui parteciparono Giovanni Raboni, Goffredo Fofi, il fotografo Uliano Lucas e Enzensberger, che in Germania stava a sua volta lanciando con Gaston Salvatore una rivista lussuosa come TransAtlantik.

Con Enzensberger eravamo d’accordo su diverse cose, ma non su una: a Piergiorgio e a me la svolta degli anni Ottanta invece che il lusso ci suggeriva la scelta opposta. Per noi era arrivato il momento di inventare una rivista che fosse soprattutto un “corpo estraneo” nel sistema in espansione della cultura e del suo mercato. Di cultura ce n’era anche troppa, per un consumo sempre più rapido da parte di un pubblico vorace ma distratto, curioso di tutto e smemorato. Intanto la sintonia che avevo sempre avuto con Piergiorgio era aumentata. Anche noi rischiavamo, come Enzensberger, una forma di snobismo, ma non quella del lusso e dell’opulenza (alla presentazione di TransAtlantik il ricco editore non aveva badato a spese, lo champagne correva a fiumi). Lo snobismo di Diario (che pure ci venne rimproverato) doveva essere semmai nell’eleganza protestante di chi riduce, semplifica, limita. Si trattava di risparmiare, anche perché il finanziatore era Bellocchio in persona e i soldi da investire erano il minimo sufficiente per stampare due o tremila copie.

Se devo ricordare il momento preciso in cui la fondazione di Diario ci sembrò matura fu quando, nel giardinetto della sua casa di Vittoria Apuana (una villa délabré di proprietà di sua moglie), lessi a Piergiorgio un mio saggetto non ancora pubblicato il cui titolo era Tipi intellettuali: ruspa, tritacarne, apriscatole, frullatore. Non volendo piangere, si doveva ridere! Ed è quello che da allora in poi avvenne con Diario. Era l’estate del 1983 e la mia nausea anticulturale aveva superato un limite oltre il quale la discussione critica e la polemica non bastavano più: erano anzi quasi impossibili. Per polemizzare discutendo è necessaria una possibilità di dialogo. Quando il dialogo manca e ne è passata anche la voglia, non rimane che la satira, in cui non si ha a che fare con interlocutori ma con personaggi da commedia da contemplare a distanza.

Stavo anche rimuginando sul fatto che un secolo di marxismo aveva messo a tacere la forma letteraria e critica della satira, sostituendola con la critica dell’economia politica e la teoria della rivoluzione. Essere attratti dalla satira culturale voleva forse dire regredire al giornalismo del Settecento? Ebbene, sì. Messa da parte l’idea di utopia e di rivoluzione, si era costretti alla convivenza, anche se non soddisfatta né pacifica. Regredire alla satira, al giornalismo illuministico e al diario, presupposto di ogni genere letterario, era un altro modo, più classico e “d’epoca”, di fare critica dell’ideologia e delle idee dominanti, che secondo una vecchia formula sono le idee della classe dominante.

In quanto scrittori entrambi refrattari alla pratica di generi immediatamente riconoscibili come la poesia e il romanzo, la sconfitta politica di una sinistra accecata dalla sua falsa coscienza ci sembrò un’opportunità letterariamente interessante. Bisognava ricominciare dalla critica sociale e il nostro Diario sarebbe stato una rivista di esperimenti saggistici.

Ci saremmo divertiti. A qualche amico (per esempio Grazia Cherchi) che mi chiedeva chi erano, nella realtà, i quattro tipi intellettuali che avevo preso di mira, dissi che era più utile restare nel vago e contare sull’immaginazione dei lettori. Ma certo è che la ruspa faceva un po’ pensare ad Asor Rosa, il tritacarne a Toni Negri e Cacciari, l’apriscatole ovviamente a Eco, il frullatore sia a Citati che a Severino.

Qualche parallelismo con i primissimi numeri dei Quaderni piacentini c’era. Piergiorgio sembrava tornare a quel “Congedo dagli intellettuali” con cui era iniziata la sua attività pubblicistica vent’anni prima. Il suo punto di vista era di nuovo quello di un osservatore la cui bussola sono le proprie personali esperienze e quello che vede con i suoi occhi. Il Brecht degli anni Trenta, soddisfatto di sentirsi materialista dialettico, aveva ammonito:

«Tu hai due occhi, ma il partito ha mille occhi». Purtroppo si era visto da tempo che con i loro mille occhi i partiti comunisti erano riusciti a diventare ciechi. Se si arriva a credere che grazie a un passe-partout come il marxismo non c’è più bisogno di usare i propri occhi, allora è meglio fare a meno dei partiti e della loro presunta onniscienza, per sapere meno, ma con maggiore precisione.

Diario nasceva da un’insolita fiducia nelle nostre insofferenze. Al primo posto la diffidenza nei confronti delle istituzioni statali, culturali, politiche. La storia del Novecento aveva insegnato qualcosa. Quando gli scrittori si erano affidati a teorie ready made e a organizzazioni politiche, rinunciando a usare la letteratura come primo mezzo di conoscenza, invece di guadagnarci in chiarezza avevano spesso perso la testa. Non è un caso quindi che nel 1988 aprimmo il numero 6 di Diario con un saggio di Simone Weil intitolato Note sulla soppressione generale dei partiti politici, scritto poco prima della sua morte, quando pensava al futuro di un’Europa da ricostruire. In quello stesso numero Piergiorgio dedicò una lunga recensione all’epistolario di Pasolini la cui conclusione era che le lettere dal 1940 al 1954 erano il capolavoro dello scrittore. Io me la prendevo con il vuoto gergalismo filosofico di Heidegger e Derrida.

Fin dall’inizio ci eravamo resi conto che per i nostri propositi critici circolava abbondante materia. Nei primi tre numeri c’era già l’essenziale per farsi un’idea del nostro distacco dall’ambiente intellettuale caratteristico degli anni Ottanta, un decennio di metamorfosi attuali e annunciate. Tutto cambiava, dal giornalismo all’editoria, dall’università alle mode sia di élite che di massa (protagonisti Scalfari e Calasso, Armani ed Eco). A costo di metterci “dalla parte del torto” non essendoci altri posti in cui metterci, meglio starsene liberamente “fuori” e tenerci quel ridotto numero di lettori (più singoli individui che un vero pubblico) i quali con le loro lettere mostravano di aspettarsi da noi qualche conforto. Enzensberger ci scrisse che anche in Germania avevamo dei “ferventi” lettori: forse solo lui e un paio di amici. Lettere di approvazione e adesione le ricevemmo anche da Renato Solmi (il primo e insuperato traduttore di Adorno e Benjamin), Sebastiano Timpanaro, Giovanni Jervis, Carlo Ginzburg, che apprezzavano la nostra autogestione artigianale. Non avevamo cercato un editore, stampavamo alla maniera di Gutenberg, niente fotocomposizione, niente pubblicità e nessun distributore, librai scelti e un buon numero di abbonati.

Anche se non eravamo molto produttivi con quelli che sarebbero stati i nostri dieci numeri nel corso di otto anni, non posso certo parlare di tutti. Ci prendevamo tutto il tempo che ci serviva per capire cosa scrivere e come farlo. Naturalmente molti vecchi amici del ventennio politico precedente, a cominciare dai più anziani e autorevoli, per esempio Fortini e Cases, ci guardavano come due alieni, fra riprovazione (individualisti!) o velata gelosia (che coraggio!). Per noi era invece una scelta e un’attività letteraria del tutto naturale e ci sentivamo “politicamente impegnati” come mai prima (ma che cos’è impegno? Che cos’è politica?). Tutto era nato e procedeva con le nostre interminabili chiacchierate. La nostra musa ispiratrice era la conversazione. Era parlando di tutto fra noi che venivano fuori le idee. Era leggendo l’uno all’altro quello che avevamo scritto che serviva a sistemare le cose, a precisare, a trovare i titoli migliori: per esempio Carne da progresso, La donna delle pulizie, Ci sarà posto?, Chi ci libererà dalla politica?, I rumori dell’Essere, Al di sotto della mischia

Ricordo che una volta, a Piacenza, eravamo seduti come al solito fra divano e poltrona quando Letizia, la figlia allora ventenne di Piergiorgio, passò per salutarmi prima di uscire. Tornò dopo alcune ore e vedendoci ancora lì esclamò: «Ma che cosa vi dite?». Già. Sembrava l’ozio di due chiacchieroni nullafacenti e invece “stavamo lavorando” alla rivista. Altre volte ci vedevamo a Bologna in uno strano locale, “da Lamma”, i cui indecifrabili avventori, citando il Baudelaire che stavo traducendo, avevo definito “i sinistrati della vita”. In un certo senso sembravano simbolicamente rappresentare i nostri affezionati abbonati e lettori: gente “fuori da tutto” come Goffredo Fofi per scoraggiarmi aveva definito Bellocchio, poco raccomandabile perché fuori da tutto. Non c’era cosa, in verità, che mi interessasse di più.

Oltre ai nostri saggi frammentari e aforistici, ci facevamo fare compagnia da alcuni classici otto-novecenteschi che erano “la nostra letteratura”: non maestri, ma autori che avevano scritto in modo definitivo molte cose che ora pensavamo. Cominciammo con Kierkegaard, il più diaristico dei filosofi, e poi con Leopardi. Due antiprogressisti per i quali la categoria di intellettuali più insopportabile era quella dei “mediatori”: professori, politici, giornalisti, preti… E quanto agli eterni “rivoluzionari”, poteva bastare il ritratto che un secolo prima ne aveva fatto Aleksandr Herzen, avversario di Marx, chiamandoli gli habitué e i coristi della rivoluzione.

Non avevamo escluso di avere dei collaboratori. Sta di fatto però che non ne abbiamo mai sofferto la mancanza. Solo per un momento ci balenò un’ipotesi. Fu quando Cesare Garboli, nel 1986, cominciò a collaborare con Repubblica e scelse bene come esordire. Osò ridere di Jacques Lacan, sommo sacerdote del freudismo riformato. L’idea cui si era affezionato Garboli e che considerò sempre la sua migliore era che gli intellettuali del secondo Novecento arrivavano come copie aggiornate del Tartufo di Molière. Mentre nel Seicento la devozione e la pedagogia religiosa erano la maschera più adatta per procurarsi vantaggi sociali e materiali, nel Novecento l’ideologia politica e la cultura avevano preso il posto della religione. In mancanza di anime da salvare, ora gli intellettuali, fra partiti, università e psicoanalisi erano i nuovi impostori, venditori di identità o guaritori. In effetti questo era un tema molto adatto a Diario. Ma Garboli non sembrava che avesse bisogno di noi, né di un posto in cui pubblicare… Sebbene avesse scritto a Piergiorgio che leggendolo non aveva mai riso tanto come leggendo Molière.

Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), saggista e critico letterario. Ha insegnato Letteratura contemporanea all’Università di Venezia. Ha fondato e diretto con Piergiorgio Bellocchio la rivista “Diario” (1985-1993, in volume Quodlibet, 2010). Il suo ultimo libro è “Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve” (il Saggiatore, 2021).