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Ogni volta incasso la sconfitta e vado avanti

La danza di madre e figlia attraverso il dolore, la felicità e la malattia. La bellezza selvaggia di una vita che non abbiamo scelto. “Come d’aria” è il romanzo che ci accompagna dentro la pesantezza dei corpi e dei giorni e nella gioia di essere al mondo insieme, per sempre

È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio

Rita Charon

 

Quando ho letto per la prima volta il libro di Ada d’Adamo, conoscevo già la sua storia d’amore con Daria, figlia dai sorrisi che incantano, e conoscevo la sua storia di cura: il dolore e la felicità così sempre legati insieme, da molti anni, e la malattia che definisce la vita, allargandola e restringendola. Più grande è la comprensione, più stretta è la strada su cui si cammina ogni giorno, si spinge una carrozzina e si abbraccia, si bacia, si asciugano le lacrime e anche il moccio dal naso. La schiena fa male perché la tua bambina che non cammina e comincia a pesare tanto di più e tu adesso sei meno forte di prima: il cancro fa un sacco di cose al corpo e non soltanto ai capelli.

Quando ho letto per la prima volta il libro di Ada d’Adamo, credevo di conoscere molto sull’amore e sul dolore, parole, storie, romanzi utili a capire il  mondo  attraverso quel che accade alle persone, su come fanno a restare in piedi e a non voltare le spalle agli altri, come fanno a sorridere e a chiedere a te, proprio a te, sinceramente: come stai? Molto di più davvero io non volevo saperlo, se non avere la rassicurazione sulla luce che entra sempre da qualche  finestra nel cuore e nelle braccia anche  nei  giorni più bui. Volevo anche però mandare al diavolo l’idea della guerra, che chi si ammala guarisce solo se non smette mai di combattere: lottatori che perdono oppure vincono in base alla forza dei loro pugni all’aria e alle cellule malate. Quindi appesantiti anche dal dovere di mostrare i muscoli, umiliati dalla sconfitta. L’indecenza merita di meglio, l’indecenza sono i baci che non si possono dare, non solo la retorica del combattente.

E poi finalmente è arrivato questo piccolo libro verde scuro, ma luminoso, un colore sul quale il marito di Ada, il padre di Daria, ha messo tutte le forze e anche la rabbia. Doveva essere il colore giusto, il verde più bello del mondo per un romanzo che si muove tra i corpi e nell’aria e che afferma un’identità. Come d’aria (appena uscito per elliot) è il titolo di questo passo a due, diario a due che abbraccia anche gli altri ma afferma: qui siamo io e lei. Ada e Daria, lo sentite anche nei nomi il suono dell’appartenenza. Quindi la pesantezza del cielo sopra la testa e la leggerezza di madre e figlia che giorno dopo giorno (e i giorni sono anche incubi, e i giorni sono anche macchie di merda) si uniscono, si confondono l’una nell’altra, si scambiano i posti, il corpo e il cuore.

“La solitudine fa talmente compagnia che a un certo punto non si ha più paura di niente. Quando è buio e tu urli e io non so più cosa fare per farti smettere. Quando sento e vedo il tuo soffrire e non riesco a trovare la cura. Cosa vuoi che sia, allora, una telefonata che non arriva. Un posto vuoto a tavola o nel letto. Posso sopportare tutto se sono capace di assistere al dolore della mia carne. Anche il morire, allora, mi sembra una possibilità”.

Daria è nata con una forma molto grave di disabilità, scrive Ada d’Adamo nel suo libro, ma nessuno lo sapeva prima che nascesse, prima di sottrarre la bimba alla madre per una serie di esami e misurazioni durati giorni. “Aspetto una bambina sana”, si diceva lei, che proprio nei mesi della gravidanza lavorava a un libro su teatro e disabilità. L’autrice di questo romanzo luminoso si è diplomata all’Accademia nazionale di danza, ha danzato e ha studiato il corpo in movimento, ha amato e ama la fatica per la perfezione, il controllo su ogni muscolo teso dalla volontà, dalla pazienza e da un’idea superiore di bellezza. Come d’aria contiene questa bellezza. Ma non è la bellezza quieta che la madre, la studiosa, la scrittrice aveva accarezzato nella sua idea del mondo e nella ricerca quotidiana.

È una bellezza selvaggia, anche  feroce: la bellezza della vita che non hai scelto.

La bellezza di una fatica che non credevi avresti mai sopportato, e invece stavi allenando il tuo corpo e la mente non solo per Stravinskij, ma anche per la realtà della Terapia intensiva neonatale, per il gelo dei medici, per lo sguardo attonito degli amici, per la caposala che al momento delle dimissioni dall’ospedale suggerisce il Valium per calmare la piccola e aggiunge: “Questa le farà passare i guai”. Per tutto quello che succede alla nostra vulnerabilità e alla nostra fortuna. Un giorno ti siedi a tavola e la tua vita è cambiata per sempre, dice Joan Didion e dice Ada, la madre della bambina che piange, che ha crisi epilettiche, che soffre ma nessun medico, nessuna infermiera ha spiegato che urla perché è l’unica cosa che può fare contro il male in un corpo che non controlla e lo spavento in un mondo che quasi non vede. Pensavo fosse colpa mia, scrive Ada nella lettera a sua figlia. Scrivere è anche un modo per ribellarsi alla colpa: ti assumi la responsabilità delle parole che scegli, racconti quello che sembrava indicibile, ma non accetti più né altre colpe né altri spropositi. I movimenti per la vita, la tutela della vita. “Sono forse per la morte, io?”, chiede sgomenta e insonne la mamma di Daria al mondo che sventola bandiere. Ma poi, quale vita? Quella delle madri lasciate sole nelle case di notte a evitare che il figlio si stacchi il braccio a furia di morderlo? Ada D’Adamo usa le parole anche per strappare le bandiere, e offre al suo cammino di conoscenza e di realtà la lettera che scrisse a Corrado Augias ormai molti anni fa, quando sua figlia aveva 2 anni e lei aveva attraversato il buio assoluto delle domande a cui nessuno risponde e gli sguardi di chi per strada ti compatisce. In quella lettera diceva: “Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno avrei scelto l’aborto terapeutico”.

Era iniziata la danza con Daria, era iniziato Stravinskij. È una danza anche rabbiosa che prevede sconfitte, poi altre sconfitte, persone che spariscono e persone che diventano tutto ciò di cui hai bisogno. Se posso sopportare il tuo dolore, nella tua carne che è la mia, posso sopportare tutto. Se la cura diventa l’unica possibilità di vita, dev’esserci un modo per darle voce, rabbia e bellezza. Un modo per dire al mondo chi sei, Daria, e chi siete voi insieme, chi siete diventate.

Adesso che Daria ride nel suo corpo da ragazza e vuole per sé tutti i sorrisi e le carezze, vuole la voce e le mani e la forza di sua madre anche mentre sua madre  è stanca, questo libro è ancora più importante: per la verità della storia e per la verità di due persone che si parlano e si scambiano l’identità. Si incorporano l’una nell’altra. Madre e figlia, cura  e  malattia, luce e buio. Tutta la strada fatta per arrivare qui non toglie certo il desiderio di andare ancora più lontano e poi tornare indietro a fare i conti il passato. Ma questo libro intanto tiene insieme i fili  delle  vite che non abbiamo scelto, rifiuta i cliché e si inoltra con grazia nella foresta selvaggia della complessità umana: offre una possibilità di comprensione in più.

Ada mi ha raccontato di quando combatteva con il distributore automatico, in uno degli ospedali, per farsi dare un  misero succo d’arancia che si incastrava in uscita. Tutte le monetine  sprecate,  dietro  di  lei una piccola fila di gente e nessuno che l’aiutasse. Dietro di lei una suora che voleva il suo caffè e basta. Dentro di lei la grande voglia che cresce di sfasciare il distributore a pugni, a calci, a morsi, con quelli sempre immobili alle sue spalle. Lo schifoso succo d’arancia è finalmente sceso giù, maledetto con quelle chiusure di  plastica  impossibili da aprire che si infilano sotto le unghie e la suora concentrata sul caffè. Che cosa si fa quando è così difficile comprendere, quando è così difficile aprire il succo d’arancia? Si trovano le parole per ballare Stravinskij.

In  Come  d’aria  ci  sono.  Si  può  sfasciare il distributore lo stesso, ma adesso sappiamo meglio perché, e quanto se lo merita. Quel giorno però al distributore è arrivato Alfredo, il marito di Ada, il padre di Daria, e ha portato una cosa semplice, non complessa: un toast molto cotto, proprio come lo voleva Ada. Un toast buonissimo, caldo, semplicissimo, pieno della vita che scorre fuori e dell’abbraccio di chi ancora e sempre dice: “Ce la faremo”.