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Ottanta grammi di riso al giorno

Il Partito comunista cinese riscrive gli eventi del passato e censura quelli del presente per conservare il suo potere e magnificare la sua storia. E per reprimere il dissenso. Non è solo propaganda, è cancellazione. La resistenza la fanno gli storici anarchici come Ai Xiaoming, con una telecamera, una lapide, un paio di forbici: per conservare la memoria

Dopo che Mao aveva requisito tutto, il grano, i semi, perfino gli attrezzi agricoli, perché gli sembravano più utili fusi, per fare il ferro, al campo di lavoro di Jiabiangou la razione di riso era arrivata a ottanta grammi al giorno. I prigionieri politici la dividevano a metà, un po’ la mattina, un po’ la sera. Un giorno dissero al funzionario del Partito che non era abbastanza. Lui rispose che potevano mangiare la paglia del grano: «Le mucche e i cavalli mangiano l’erba e possono fare qualunque tipo di lavoro, trainano carri e aratri. Mangiare paglia è un’invenzione!». Ci provarono: tagliavano la paglia a pezzetti piccoli, la soffriggevano in una padella, la riducevano a farina e da quella preparavano una specie di poltiglia da mangiare. Così oltre alla fame arrivò la stitichezza: usavano dei bastoncini per farla uscire, si provocavano infezioni, e alla fine chi dei prigionieri non moriva di fame e di stenti moriva di stipsi.

Arrivò pure il cannibalismo. C’erano migliaia di corpi pelle e ossa abbandonati su una pianura del campo, dove ogni tanto banchettavano cani e lupi. Ai prigionieri non restava che mangiare le interiora: un fegato, un polmone. A Jiabiangou, il famigerato Jiabiangou, ci finiva chiunque fosse considerato “di destra” durante la campagna per eliminare i potenziali oppositori politici di Mao e del Partito comunista cinese, quella che andò avanti tra il 1957 e il 1959. È più o meno lo stesso periodo della Grande carestia, anche quella provocata dal Grande balzo in avanti voluto da Mao. La fame era fuori dal campo di lavoro, ed era dentro al campo di lavoro, era dappertutto.

Per il Partito comunista cinese ancora oggi non è successo niente in quegli anni. L’eredità di Mao non può essere messa in discussione, perché verrebbe meno la legittimità della leadership di oggi. Così si riscrive la storia, lo si fa di continuo, per magnificare la missione dei presidenti successivi a Mao, via via fino al presidente più vicino all’autoritarismo di Mao, l’attuale leader Xi Jinping.

Conosciamo le storie dei sopravvissuti al campo di lavoro di Jiabiangou, alla Grande carestia, non certo grazie alla leadership di Pechino, che ancora oggi censura tutto ciò che non si inserisce nella grande narrazione epica e celebrativa della Repubblica popolare cinese. Conosciamo quelle storie grazie a persone come Ai Xiaoming. Oggi ha settantuno anni, è una documentarista tra le più censurate in Cina: è stata lei a raccogliere le voci degli ultimi sopravvissuti, le storie di fame e di disumanizzazione. L’avevano fatto altri prima, parlando al passato, cercando una spiegazione a tutto quel dolore – poi erano stati censurati, cancellati, come parte di quella storia che non deve essere raccontata. Ma Ai Xiaoming ha usato la telecamera, il suo mezzo, per raccontare il presente di Jiabiangou. Ha seguito un sopravvissuto, Zhang Suiqing, nel suo tentativo di erigere una lapide sul campo, nel deserto del Gobi, in una piana alla quale il governo locale non sa che destinazione dare perché disseminata di ossa umane. E Zhang nel 2013 ci riesce: raccoglie i soldi, il governo gli permette di erigere la tomba autorizzando l’incisione parola per parola: «Cenotaph of the Remains of Those Who Died in Disaster» – un disastro, senza responsabilità.

Poi però succede qualcosa. La pietra tombale era stata eretta da qualche giorno quando il leader Xi Jinping fa un discorso molto famoso. Durante le celebrazioni del 120° anniversario dalla nascita del presidente Mao Zedong, Xi dice che il Grande timoniere aveva «risolto in modo creativo la grande questione della sintesi tra marxismo-leninismo e la realtà cinese», e che il popolo dovrebbe rafforzare la sua fiducia «nel nostro percorso, nelle nostre teorie e nelle nostre istituzioni». Mao diventa così di nuovo il modello, legittimato anche nel presente.

Le autorità cinesi vanno al campo di Jiabiangou e demoliscono la pietra tombale.

Nel documentario Jiabiangou Elegy: Life and Death of the Rightists, uscito nel 2017 e immediatamente censurato in Cina, un uomo dice alla telecamera di Ai Xiaoming:

«Ora che il cenotafio è stato distrutto, non esiste più nemmeno Jiabiangou. Vuol dire: dimenticati del passato. L’essere umano non ha bisogno di preservare la storia. Se davvero fosse così, allora cosa definisce l’essere umano? Che cosa significa essere un uomo?».

Ai Xiaoming è nota come documentarista, docente universitaria, ma anche come attivista politica e femminista. Nel 2013, quando venne fuori che il preside di una scuola e un funzionario locale nella provincia di Hainan avevano portato sei studentesse fra i dodici e i quattordici anni in una stanza d’hotel, per stuprarle a turno, Ai Xiaoming insieme con l’attivista Ye Haiyan fecero partire una campagna social, «Preside, prendi una stanza con me». Si fotografò con la scritta sul petto nudo, e un paio di forbici da sarto in mano. La campagna divenne virale, nonostante i tentativi di censura e le minacce e le molestie – non solo online – ricevute da Ai. Quella sua foto con le forbici è considerata anche oggi una delle immagini più potenti della Cina contemporanea.

Non è una storica, Ai Xiaoming. Non nel senso che intendiamo noi in occidente. Fa parte degli storici underground e anarchici, i jianghu – un termine che significa letteralmente “fiumi e laghi” che definisce anche quel mondo senza regole lontano dai centri abitati e del potere. Gli storici jianghu sono quelli che raccolgono e conservano i racconti del passato oltre la mistificazione del potere e la cancellazione autoritaria del Partito comunista cinese. Nessuno aveva mai raccontato le loro storie fino a quando Ian Johnson, giornalista premio Pulitzer che ha passato gran parte della sua vita in Cina scrivendo reportage per New York Times e Wall Street Journal, ha deciso di raccontare le vite di questi storici che fanno la resistenza, che ci permettono di capire qualcosa oltre il velo della propaganda.

«In Cina, storia e moralità sono inseparabili», scrive Johnson nel suo libro Sparks: China’s Underground Historians and Their Battle for the Future, uscito per Penguin nel settembre scorso. In passato, «la missione principale degli storici era quella di giudicare dinastie e governanti, in parte per mettere le cose in chiaro, ma anche per commentare i fatti di attualità». È per questo che anche i fatti d’attualità, quello che succede oggi dentro ai confini cinesi, va raccontato secondo quella strategia: non c’è solo il passato da riscrivere per giustificare il potere del Partito comunista cinese, ma anche il presente. Tutto serve a controllare il dissenso: «Proprio come in passato, i leader cinesi contemporanei cercano di tenere la storia dalla loro parte raccontando storie simili ai miti: una rivolta popolare portò al potere il Partito comunista; le carestie furono causate da disastri naturali; aree minoritarie come quelle lo Xinjiang e il Tibet hanno sempre fatto parte del paese; la lotta di Hong Kong per la democrazia è opera di interferenze straniere; lo stato ha affrontato in modo responsabile la gestione dell’epidemia del coronavirus Covid-19. Il sottotesto, nemmeno così nascosto, è che solo il Partito comunista può salvare la Cina dal caos e dalla disintegrazione. Qualsiasi versione alternativa della storia è tabù. Ogni paese ha i suoi miti fondamentali, ma in Cina la mancanza di istituzioni indipendenti – media, università o partiti politici – rende difficile sfidare la versione ufficiale della realtà». Lo fanno gli storici anarchici, rischiando il carcere, la censura, le continue intimidazioni: sono professori universitari, documentaristi indipendenti, editori di magazine underground, ma anche scrittori, giornalisti, artisti. Il professor Li, lo pseudonimo di un giovane uomo che prima della pandemia insegnava arte in Italia, quattro anni fa iniziò a pubblicare sui suoi social video e notizie che gli arrivavano da dentro ai confini cinesi attraverso canali e social di messaggistica protetti. Nel giro di pochi mesi, si era trasformato in una delle pochissime fonti di informazioni non censurate dalla Cina, con milioni di follower online. Sebbene sia ancora oggi nel suo appartamento a Milano, subisce regolarmente intimidazioni e minacce. Anche chi lo segue: di recente la polizia cinese è andata a trovare casa per casa molti dei suoi follower, per interrogarli, chiedergli: credi di più a lui o al Partito? Il 19 marzo scorso il professor Li ha messo su X, il social che prima si chiamava Twitter, il video di un veicolo che si schianta contro una folla di pedoni a Jiaodaokou, nel distretto di Dongcheng, a Pechino. Nelle immagini si vedono decine di corpi a terra. Per giorni la notizia non è apparsa nella cronaca dei giornali cinesi, e sui social ogni riferimento all’incidente risulta ancora oggi censurato.

Come la pietra tombale al campo di lavoro di Jiabiangou.

Giulia Pompili (Roma, 1985), giornalista del Foglio. Ha una newsletter, “Katane”, e ha scritto per Mondadori «Sotto lo stesso cielo» (2021) e «Al cuore dell’Italia» (2022, con Valerio Valentini).