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Piccolo inferno dentro il K-pop

La boyband più ricca e famosa di tutte si prende una pausa e confessa: siamo stremati. I Bts e il fintissimo mondo dell’intrattenimento sudcoreano: niente fidanzati, niente gelati, niente foto nudi, niente omosessualità. Vietate le debolezze, le denunce, vietata la libertà. Lo specchio di una società dove bisogna essere perfetti a ogni costo. Anzi, a costo della vita

Appena sbarcati all’aeroporto internazionale di Incheon, in Corea del sud, la prima cosa che vi accoglie è la puzza. La puzza di kimchi, il piatto tipico sudcoreano fatto di cavolo cinese fermentato con varie spezie, che si confonde con quella di aglio, cipolla e ancora aglio. Se per qualche ragione foste costretti a scendere dall’aereo bendati, capireste di essere in Corea per via di quell’odore. Ma adesso è addirittura più facile riconoscere la Corea. Adesso c’è anche il K-pop.

Sonnet Son, vincitrice di The Voice of Korea e star del K-pop, accoglie i passeggeri diretti a Seul con una canzone orecchiabile che si chiama Hello, Icn! e un video in cui tutti quelli che aspettano un volo ballano e fanno i cori. Sul treno verso la capitale sudcoreana, i cartelloni pubblicitari sono quasi tutti volti noti (o meno noti, a seconda del brand) del K-pop. A Seul, le agenzie turistiche propongono tour guidati sui luoghi sacri del K-pop. Dal quartiere dei ricchi Gangnam fino a quello universitario di Sinchon, gruppi di ragazzi si esibiscono per strada nella speranza di essere notati da qualche talent scout e reclutati dai colossi dell’intrattenimento: un paio di anni sotto contratto con la MLD o con la SM Entertainment è la svolta della vita, almeno della giovinezza.

K non è soltanto il pop, non è soltanto la musica, ma un’intera industria che da anni ha il merito di aver trasformato l’immagine dell’intera Corea del sud nel mondo. È un settore poco definibile, perché gli artisti del K-pop sono quasi sempre performer, attori, promoter, influencer, e a un certo punto le cose si confondono, non si sa più quale sia il loro talento originario. Perché ballano, cantano, recitano, posano per servizi fotografici e finiscono su tutte le copertine di magazine specializzatissimi. Come le star del giornalismo italiano. Solo che la beauty routine di un idol del K-pop vale più del pil di un piccolo paese di provincia in Italia. Ho quasi avuto un infarto, una volta, quando appena entrata in un supermercato di Seul mi sono trovata davanti Sunny delle Girl’s Generation. Era spuntata all’improvviso, dal nulla. E infatti era un ologramma che provava a vendermi del kimchi confezionato. Ero stata perfettamente targettizzata: non a caso l’ho incontrata al supermercato a vendermi un prodotto per adulti che vivono lontani dalla famiglia (il kimchi lo fanno le mamme o le nonne una volta l’anno e per tutto l’anno, come la conserva, e acquistare quello confezionato è segno di profonda solitudine), e non a caso a promuoverlo c’era Sunny delle Girl’s Generation, che è ormai una band un po’ cringe, insomma da Millennial (il loro primo pezzo, Into The New World, è uscito nel 2007; Sunny è nata nel 1989).

Fino a cinque, sei anni fa, fuori dall’Asia, nessuno sapeva bene cosa fosse il K-pop o la sua versione più estesa, l’hallyu, cioè la Korean wave. Oggi invece anche in Europa i ragazzini e le ragazzine guardano la versione coreana de La Casa di Carta – dove la zecca che i ladri assaltano non è quella di stato ma quella che produrrà la moneta della Corea unita – e comprano online i prodotti beauty di Nature Republic, il colosso che ha sotto contratto i soggetti più popolari del Kpop. Nel mezzo c’è stato di tutto: Parasite ha vinto un Oscar, Squid Game è la serie tv più vista di Netflix, e soprattutto ci sono i Bts. A ottobre dell’anno scorso, camminando a Trastevere, ho visto un foglio A4 attaccato con lo scotch a un palo della luce. C’era la foto di un ragazzo coreano sorridente, e sotto la scritta: “Tanti auguri vita mia”, in italiano, coreano e inglese. Ho pensato a un messaggio d’amore preciso, una coppia d’innamorati che frequenta Trastevere, solo che poi lo stesso foglio l’ho trovato a piazza Venezia, a San Pietro, a via Barberini. L’ho fotografato, l’ho messo su Instagram, e poco dopo mi ha scritto l’autrice, una ragazza che aveva trascorso quattro giorni ad attaccare 2.500 messaggi d’auguri dedicati a Jimin, uno dei Bts, “la persona più importante della mia vita” (ma “è carta biodegradabile!”, ha precisato). Fa parte della Bts Army, l’armata di fan della band più ricca e famosa del mondo.

Quando a metà giugno i Bts hanno annunciato una pausa è stato uno choc collettivo e globale. Per l’industria musicale la parola pausa significa fine senza pronunciare la parola fine, che fa male all’immagine. Ma i segnali di una stanca evoluzione di questa band che da macchina da soldi si era ormai trasformata in una macchina politica c’erano tutti. Una settimana prima dell’annuncio, i sette membri della band erano stati alla Casa Bianca, ospiti del presidente americano Joe Biden. Si erano presentati tutti in completo nero, tutti egualmente elegantissimi, più Secret Service che popstar, avevano avuto un incontro privato di pochi minuti con il presidente nello Studio ovale, poi avevano parlato dal podio delle conferenze stampa. Il tema della visita era: la discriminazione degli asiatici-americani. In molti in Corea del sud avevano criticato l’apparizione, che sembrava più uno spot elettorale per Biden che una visita sensata, visto che i Bts sono coreani e non parlano nemmeno inglese. Però Suga, uno dei fantastici sette, aveva detto: “Non è sbagliato essere diversi”. Perché i Bts non sbagliano mai un’affermazione. Sono gli Avengers del correttissimo mondo dei buoni sentimenti. E il problema principale del mondo del K-pop è forse proprio questo.

L’annuncio della pausa è arrivato in occasione di Bts Festa, una celebrazione per l’anniversario del loro debutto nel 2013. The Real BTS Dinner Party è un video-evento di un’ora, pubblicato sul loro canale YouTube da 70 milioni di iscritti, in cui i sette vengono ripresi mentre cenano assieme. In realtà è un video straziante. Un attimo prima ci sono dei ragazzi giovanissimi, bellissimi, che parlano mentre masticano e si fanno battute simpatiche. Poi piangono quasi tutti. E lo fanno quando si inizia a parlare dell’ansia da prestazione, del fatto che non si sentono più esseri umani ma soltanto i Bts, in gruppo. In qualche modo si percepisce la gigantesca pressione a cui sono sottoposti, perché a nessuno dei Bts – a nessun idol del K-pop, a maggior ragione a loro – è concesso un errore. E per errori si intendono soprattutto due cose: violare le regole del gioco oppure fare qualcosa che diventi polemica online. Negli anni che le grandi aziende dell’intrattenimento chiamano “di training”, le regole da seguire sono rigidissime: nessun fidanzato o fidanzata pubblica, perché avere una relazione limita il sogno degli ammiratori e delle ammiratrici e distrae dall’obiettivo finale. Per questo, molte volte, anche gli smartphone sono vietati. L’omosessualità è tabù, e fa perdere punti con la potentissima lobby delle sette religiose sudcoreane. La forma fisica è maniacalmente controllata, come per gli animali da reddito c’è la periodica pesa che è un esame da superare, così anche l’alimentazione delle star del K-pop è controllatissima (V e Rm dei Bts raccontarono che una volta, agli inizi, si comprarono un gelato da mangiare passeggiando per strada, ma il van dell’agenzia gli corse dietro). La politica è naturalmente vietata. E poi bisogna sorridere sempre, anche durante quelle lunghissime sessioni di incontro con i fan, che pagano l’equivalente di centinaia di euro per trascorrere cinque minuti con i loro idoli. Per le donne significa mostrarsi sempre disponibili, accettare qualunque commento, anche il più violento.

Ma c’è di più, perché tra gli errori più gravi, per un uomo, c’è quello di evitare il servizio militare.

Al di là dell’idolatria, i Bts sono stati a lungo considerati dei privilegiati. Durante il vecchio governo progressista guidato dal presidente Moon Jae-in, il K-pop era considerato un’arma politica infallibile da sfruttare, e ai membri della band più famosa di Corea era stato concesso perfino l’onore del nome di una legge, la “Bts law”, che gli avrebbe permesso di sospendere o rimandare il servizio militare. In Corea del sud il servizio di leva è un pezzo importantissimo di comprensione della società: è obbligatorio solo per gli uomini, ed è considerata un’esperienza ai limiti dell’umana capacità di sopportazione. I Bts erano riusciti a sfuggire, per legge, all’anno e mezzo di vessazioni in cui sarebbero scomparsi dalle scene. Ma quando è stato eletto il conservatore Yoon Suk-yeol, nel maggio scorso, in molti hanno previsto che il momento d’oro del K-pop sarebbe finito. Il nuovo presidente ha detto che “non sono ammesse eccezioni” sul servizio militare, ha dato voce alla violenta protesta degli uomini che odiano le donne, in Corea del sud, perché come i Bts possono saltare il servizio militare. L’arrivo del populismo di destra al governo di Seul sta cambiando tutto.

I magnifici sette, nelle loro canzoni ma anche nelle interviste, sono stati tra i primi a parlare apertamente di salute mentale a un pubblico sudcoreano dove il tema è ancora un tabù. Nel 2018, in una famosa conversazione con la Yonhap, Suga aveva parlato della sua depressione: all’epoca aveva 26 anni e la sua band era già tra le più famose del mondo.

Nei testi dei Bts si parla di stress, di accettazione di sé, del fenomeno che sembra inarrestabile del bullismo tra i giovani sudcoreani. Eppure la loro immagine pubblica, le loro dichiarazioni in linea con il mercato americano e occidentale, sono spesso in contrasto con la realtà del mondo del K-pop.

Le società di intrattenimento sudcoreane hanno costruito un mondo perfetto e fittizio nel quale gli artisti sono i prodotti perfetti, gli eroi protagonisti senza macchie e senza debolezze. È un mondo costruito su una menzogna, e basta guardare su Netflix il documentario Cyber Hell: Exposing an Internet Horror sul caso delle stanze su Telegram Nth e sulle migliaia di donne ricattate per anni pur di evitare lo scandalo di vedere i propri corpi seminudi online. Quel caso di cronaca fu rivelatore di una crepa che si stava aprendo nella società, e nello stesso periodo – era più o meno il 2019 – a Seul venne fuori dall’ombra anche un altro gigantesco mondo di ricatti e violenze che aveva a che fare con l’industria dell’intrattenimento e lambiva la politica e la polizia. Al Burning Sun, noto nightclub di Gangnam, era stata scoperta una rete di molestie, stupri, e soprattutto decine di migliaia di ore di video che venivano scambiati online. I soggetti erano donne che non sapevano di essere riprese. Una delle menti del sistema criminale era Seungri, star della boy band Big Bang.

Bullismo, violenza, pressioni. L’incredibile numero di suicidi legato al mondo del K-pop è in linea con la media nazionale: in Corea del sud, da anni, la prima causa di morte tra i giovani fino ai 24 anni è il suicidio. Ce ne sono 24,6 ogni 100 mila abitanti. Sulli, nome d’arte di Choi Jin-ri, aveva 25 anni quando arrivò all’apice del successo: dischi, film, serie tv. Premi. La sua storia d’amore con il rapper Choiza era stata criticatissima. Con il cyberbullismo erano iniziati pure gli attacchi di panico. Aveva chiesto aiuto all’azienda d’intrattenimento a cui apparteneva. Fu trovata morta la mattina del 14 ottobre del 2019 nel suo appartamento di Seongnam. La K-popstar Goo Hara, amica di Sulli, si suicidò il mese successivo. Da tempo combatteva in tribunale per far condannare il suo ex fidanzato per stupro. Lui l’aveva ricattata, dicendo che avrebbe pubblicato i suoi video privati online. Nella cultura maschilista sudcoreana, per una donna significa la fine di una carriera e della reputazione. Il luminoso e allegro mondo del K-pop ha un lato così oscuro che a volte è difficile trovarne il fondo.

Giulia Pompili (Roma, 1985), giornalista del Foglio. Ha una newsletter, “Katane”, e ha scritto per Mondadori «Sotto lo stesso cielo» (2021) e «Al cuore dell’Italia» (2022, con Valerio Valentini).