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Prima dell’alba a Rogoredo

Congelare gli ovuli, bere un cappuccino al buio e ripercorrere il cammino della procreazione e delle battaglie femministe. Oltre ogni storia personale per riavvolgere il filo di tutti i tormenti: che cosa desidereremmo se fossimo libere di desiderare

A Milano la stazione più malfamata è Rogoredo, o così dicono. Forse è migliorata, ma l’altro giorno c’erano due a farsi di crack sul binario 4, quindi forse no.

Quest’inverno ho passato molto tempo a Rogoredo. Sempre nel buio prima dell’alba, prima delle sei, quando facevo la pendolare della procreazione con Bologna. Nel mio caso non era procreazione, ma crioconservazione degli ovociti (congelamento degli ovuli), all’ospedale Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, uno dei primi nel mondo a mettere a punto questa tecnica. La prima nascita internazionale con ovociti conservati è del 1997, ed è un primato scientifico della professoressa Eleonora Porcu, che è responsabile della struttura.

Quando si parla di congelamento degli ovuli si fanno immediatamente un paio di associazioni. La prima, quella sostenuta dai media, è che congelare gli ovuli è un’assicurazione per le donne giovani e sane che vogliono dare priorità alla carriera. Potremmo abbandonarla, questa cantilena delle donne arriviste: uno studio condotto negli Stati Uniti e in Israele sulle motivazioni delle donne che si sottopongono alla crioconservazione dice che l’85 per cento lo fa per mancanza di un partner. Inoltre l’età media al momento della conservazione è 38 anni, quando biologicamente l’apparato riproduttivo è ben lontano dall’essere giovane, come mi spiega la stessa Porcu, che è anche professoressa associata all’Università di Bologna e membro della commissione scientifica del ministero della Salute: “La quantità e qualità degli ovociti utile per avere un bambino si riduce notevolmente già dopo i 30 anni, poi la caduta in basso si accentua dopo i 35-37. Dopo i 40, abbiamo un residuo della cosiddetta riserva ovarica, che è il numero fisso di ovociti coi quali nasciamo”.

La seconda cosa che viene in mente quando si pensa a questa procedura è uno stato d’animo: quello della donna che si sottopone a trattamenti di fertilità da una posizione di disperazione e sofferenza, con il grande desiderio di avere un figlio. “Circa un terzo delle persone che si rivolge alla nostra struttura ha più di 40 anni”, racconta Porcu. Aspettativa, speranza, angoscia. Neanche questa era la mia storia.

Allora perché ero lì, alle 5 e 50 del mattino, a dicembre, davanti alla porta chiusa del bar della stazione di Rogoredo, aspettando che aprisse per prendermi un cappuccino? Mi interessa un’analisi che vada oltre la mia, anzi le nostre storie, dire qualcosa dell’essere donna, del vivere in questo paese, del lavorare, e degli orizzonti in cui si muovono i nostri desideri.

Capisco che ci sono donne che non farebbero un figlio neanche per un milione di dollari, e altre, molte altre, che lo fanno perfino sotto la soglia di povertà, o altre ancora che pensano, magari dalla loro situazione di relativo comfort economico, che fare figli è comunque un atto di incoscienza, un “buttarsi” (in Italia, buttarsi nel non impiego: 3 donne su 4 hanno abbandonato il lavoro per la cura dei figli, nel 2020). Ma non si può parlare sempre solo di sé, come se il proprio sentire fosse significativo in quanto tale; servono i numeri per capire quello che sfugge alla preferenza individuale. Dove la percentuale di spesa pubblica riservata al childcare, ovvero alla cura dell’infanzia escludendo la scuola (gli asili nido, il doposcuola) è maggiore, si fanno più figli, e prima.

Svezia, Finlandia, Francia: più dell’1 per cento del pil speso in childcare, primo figlio attorno ai 28 anni. Il tasso di natalità, cioè il numero di nascite per donna, in Francia è 1,86 e in Svezia 1,71. In Italia è 1,27, il primo figlio si fa in media a 31,3 anni. È stato detto che non c’è poi così tanta differenza, che i figli non li fanno più neanche in altri paesi. Ma una differenza del 35 per cento non è trascurabile.

Fare “più figli e prima” non è un valore di per sé, ma è un indicatore della maggiore libertà delle donne di includere la procreazione nella loro vita. In queste nazioni che noi consideriamo a ragione più evolute dal punto di vista dell’emancipazione femminile, le donne decidono di fare più figli. Perché qui si richiede coraggio e sacrificio per un’esperienza che si potrebbe vivere serenamente? Questi paesi ce lo dimostrano: non dobbiamo rassegnarci all’idea della madre coraggio, sostenuta dalla morale cattolica, funzionale a tenerci zitte e buone a svolgere un lavoro anche sociale in condizioni di isolamento, condizioni che comprometterebbero la salute mentale di chiunque, e svolgerlo gratuitamente. Il dibattito figli sì/figli no non fa che rafforzare questo stato di oppressione, impedendoci di guardare oltre. Cosa desidereremmo se fossimo davvero libere di desiderare? Secondo Bakunin, pensatore anarchico, gli uomini in catene non possono sapere cosa farebbero da uomini liberi. Lo stesso vale per le donne.

Tutto è nato quando ho visto Paulina, ballerina e coreografa, 30 anni, incinta di otto mesi, in sauna. Tranquilla. Finlandese. In Finlandia, il childcare è gratuito per tutti. Non bisogna implorare Beppe Sala su Instagram per riattivarlo. A Helsinki è aperto dalle 6 e 15 di mattina alle 17 e 30 del pomeriggio (si inizia e si finisce di lavorare prima). I genitori ricevono 99 euro ogni mese, tutti i mesi, fino al compimento dei diciott’anni del primo figlio. Per il secondo figlio 105 euro, e 134 euro per il terzo.

I padri hanno un congedo di paternità di 54 giorni (di cui solo 18 possono sovrapporsi al congedo materno, quindi gli uomini imparano a stare con i figli), più 158 giorni ripartiti tra i genitori. Il carico di accudimento viene ripartito tra genitori e servizi pubblici, diventando umano.

Perché, invece di raccontare le nostre opinioni, non pretendiamo che queste condizioni si vengano a creare anche in Italia? Perché del childcare si occupano solo le madri?

Anche del lavoro non parliamo con sufficiente onestà. Ci siamo adattate a essere “flessibili”, a volte ne facciamo anche una bandiera. Magari guadagniamo bene, pur senza garanzie, e viviamo l’illusoria sensazione di poterci permettere tutto: una vita agiata. Ma quest’assenza di garanzie si traduce in uno stato di costante allerta in cui non può certo fiorire la realizzazione personale, figuriamoci il desiderio di fare progetti. È la situazione lavorativa a costringerci a uno stato di sempre-ragazze, perché raggiungiamo tardi l’indipendenza economica e il nostro lavoro è più incerto di quello degli uomini. La percentuale di occupazione femminile è la seconda più bassa in Europa: 49 per cento (nel sud Italia si scende al 32 per cento, in Francia è al 62 per cento, in Svezia il 73 per cento). In generale soffriamo di mancanza di opportunità, anche flessibili, con un tasso di disoccupazione generale che è il terzo più alto d’Europa.

Le donne sotto i 35 anni con un impiego che corrisponda agli studi svolti sono il 10 per cento. In Francia il 45 per cento. Ottenere un lavoro nel proprio ambito di studi significa anche un lavoro più stabile, è un modo per distinguere il lavoro che si trasforma in una carriera dal lavoretto che facciamo mentre studiamo o cerchiamo altro. Una situazione economica stabile è l’unica in cui si può creare uno spazio di desiderio, istinto, anche solo una domanda relativa alla maternità.

Per cambiare la società bisogna uscire dal proprio intimismo, dalle romanticherie, dalle favole a cui altrimenti si è condannate. Ho sempre sentito che i numeri erano empowering; perché non li usiamo per reclamare i nostri diritti?

Parlare di crollo delle nascite è visto come antifemminista, ma conoscere il proprio corpo ed essere padrone delle proprie scelte è invece la quintessenza del femminismo, e questo oggi è dimenticato, soffocato dall’idea romantica che si può sempre fare dopo, contando sull’amica che è rimasta incinta a 45 anni – “se deve succedere, succede”. Ma quest’idea è poi davvero romantica o solo una sfumatura della nostra condizione di oppressione, che neanche riconosciamo più? Il fertility day per cui ci siamo tanto indignate non aveva alla base la cruda idea che il nostro corpo va conosciuto nei suoi limiti? È chiaro che la questione è filosoficamente delicata, dobbiamo distinguere: non è libertà la situazione in cui lo Stato mi dice di fare figli, ma non è libertà neanche la situazione in cui lo Stato mi impedisce, con i fatti, anche solo di immaginare un figlio.

Le nostre nonne e madri si sono battute per il controllo della fertilità, con la legalizzazione di pillola anticoncezionale e aborto; noi, millennial e più grandi, ci siamo battute per il diritto a non essere violentate e abusate. Possiamo ipotizzare che, in questo lungo cammino per acquisire diritti sul nostro stesso corpo, la prossima grande, vera battaglia in Italia si giochi sul lavoro e sul diritto alla procreazione?

La realtà non sembra, per ora, andare in quella direzione. Intanto, chi fa le rivoluzioni deve necessariamente essere giovane, perché a una certa età ci si ripiega in quei discorsi di difesa delle proprie scelte personali. E le giovani non hanno in mente la maternità come diritto. Per la maggior parte delle femministe che si occupa di attivismo sui social, che non sono giovanissime ma vanno dai 25 ai 40 anni, le donne con figli praticamente non esistono. Come a dire: si sono vendute al patriarcato, si arrangino. Gli argomenti più trattati sono la violenza di genere, i diritti lgbt, il sex work, l’aborto, la condizione delle donne in zone di guerra, il razzismo, l’abilismo, il piacere, la body positivity (che però non include un’educazione davvero introiettata sull’apparato riproduttivo: solo il 34 per cento delle studentesse universitarie in età 20-25 anni conosce il tema della riserva ovarica e le sue implicazioni). Questi elencati sono tutti aspetti fondamentali in un’ottica corretta di femminismo intersezionale. Tuttavia, proprio il femminismo intersezionale avrebbe come pilastro lo studio di un elemento che le nostre dimenticano: la classe sociale, e come questa influenza la condizione della donna. Non esiste argomento più bistrattato in Italia. Se in Inghilterra, patria del classismo, questo tema è continuamente indagato nella narrativa e nella non-fiction, in Italia ci vergogniamo, soprattutto di un certo stato di nuova classe media precaria. Ne ha scritto Raffaele Ventura in Teoria della classe disagiata, in cui tuttavia manca una visione femminista.

Una delle più celebri conferenze del femminismo moderno è quella del 1970 al Ruskin College di Oxford. Qui le principali rivendicazioni in agenda erano: asili gratuiti aperti 24 ore al giorno, uguaglianza di salario e di opportunità lavorative.

Negli anni Settanta e Ottanta le grandi socialdemocrazie (nordiche ma non solo, anche la Francia) hanno lavorato per esaudire in parte queste richieste. L’Italia ha perso il turno. Le femministe sono passate avanti, ma il turno ora va recuperato.

Quindi mi chiedo: non è che molte donne che non ci pensano neanche ai figli sono donne come me che non hanno mai conosciuto Paulina? Che non hanno visto coi loro occhi che non è solo questione di soldi, di sostentamento dei figli, ma piuttosto di livelli di stress, di possibilità di lavoro, e di tutte quelle opportunità tangibili e intangibili che ti evitano di finire esaurita a ripostare i post di “Mammadimerda”? Il baby box finlandese, colmo di abbigliamento e tutto il necessario per un neonato che lo Stato invia mesi prima della nascita, è un po’ un vaso di Pandora, ma un vaso di Pandora di una mentalità contemporanea, che rispetta le persone. Al contrario, noi siamo governati – a livello locale e nazionale – da politici che coltivano tanti piccoli brand. La politica avanza per singole iniziative, sparate, sostegni una tantum.

Cos’è la maternità libera, non più obbligata, lo dice meglio fra tutti Eleonora Porcu: “La libertà è nella consapevolezza, la conoscenza interiorizzata: sapere come sei fatta ed essere padrona della tua fisiologia. Maternità libera è qualsiasi scelta – di fare figli o meno – illuminata da questa conoscenza”. Ma è anche opportunità: di fare un figlio senza dover affrontare un costo insostenibile per l’individuo.

Per questo, credo, ho preso il treno per Bologna. Oltre ad avere indicazioni mediche – il social egg freezing non è previsto dal Servizio sanitario nazionale – ho sentito di non aver avuto, nella mia vita, questa libertà di scelta. Sheila Heti, nel suo memoir Maternità consulta l’I Ching. Io ho ripassato tutte le condizioni in cui sono vissuta e che mi hanno portata lì, sul binario di Rogoredo. Per almeno un gesto di resistenza.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.