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Quanto ci fa tenaci la Finlandia, nuova alleata

Né con il blocco sovietico né con l’occidente, Helsinki è riuscita a mantenere a lungo un buon rapporto con i russi. Intanto però si è preparata e addestrata, perché da sempre sa che la fascinazione ancestrale per questi vicini minacciosi avrebbe potuto tradirla. Oggi si getta nella Nato dicendoci: siamo coraggiosi, liberi, gentili, e insieme siamo più forti

A Helsinki, nella piazza Hakaniemi, che da gennaio a marzo si copre di ghiaccio e si inonda di una luce accecante – il riverbero del mare, la neve, il cielo – c’è un edificio che sulla facciata segna un numero: l’ultima volta che ci sono stata, il numero era 5.591.854. È il numero degli abitanti della Finlandia, e cambia in tempo reale, ogni volta che viene registrata una nascita o un decesso. In qualsiasi altro paese, questo monito perpetuo avrebbe qualcosa di inquietante, un certo richiamo nazionalista di potenza. Non qui.

Il senso di collettività spiega il numero esposto ad Hakaniemi e l’istinto di aiutarsi a vicenda: siamo noi, ai confini del mondo, paese di frontiera politica e geografica, oltre il quale tutto finisce. Da questa geografia poteva nascere un popolo brutale, temprato dal freddo e dalla natura, e invece si è fatto spazio un popolo gentile, emancipato e col congedo di paternità.

L’alterità da tutto, ovvero l’essere diversi dai vicini russi, ma anche dagli svedesi, ha permesso la creazione di un paese socialmente evoluto, libero dalle tradizioni; uno stato quasi utopico, fondato sui giovani e il più felice del mondo secondo le Nazioni Unite – che suona sempre un po’ come una sciocchezza, invece è un indicatore basato su dati economici e sociali, libertà personale e politica, istruzione, livelli di corruzione e di criminalità.

Ma c’è un qualcosa di selvatico nella Finlandia, che sfugge alle misurazioni. Lo si ritrova nel film Scompartimento n.6 di Juho Kuosmanen, Grand Prix a Cannes nel 2021, e nell’interpretazione di Seidi Haarla (attrice che su Instagram invece delle foto sul red carpet mostra la faccia rossa e gonfia “dopo sette minuti d’immersione nell’acqua a zero gradi”). In una scena, la babuska che è la madre adottiva del protagonista le dice: in ogni donna c’è un animale, si tratta di imparare a seguirlo. Nel film, tratto da un romanzo della finlandese Rosa Liksom, Laura – interpretata da Haarla – si trova a condividere lo scompartimento del treno in viaggio verso la Siberia con Lyokha, minatore russo. Lei aspira a far parte del mondo intellettuale e bohémien della raffinata moscovita Irina, ma qualcosa di Lyokha, alcolizzato, ignorante e a tratti minaccioso, la attrae e richiama la sua parte più autentica. Laura ricerca nell’altro uno sguardo erotico. In Finlandia è forse stato messo a tacere qualcosa, la politica ha preceduto la cultura nell’eliminare quasi del tutto il divario di genere e le discriminazioni. In questo mondo in cui tutto è pubblico, che ha cancellato il torbido, è rimasto però qualcosa di inespresso, un contrasto tra quello che è il paese ultracivile, evoluto e alcuni richiami ancestrali, un linguaggio più fisico, che vive sotto la superficie. Questo contrasto è messo in scena perfettamente in Scompartimento n.6, in Laura e Lyokha.

I finlandesi guardano alla Svezia e all’Europa (soprattutto alla Germania) quando c’è luce, ma la notte è della Russia, nei sogni e negli incubi. Siete mai stati attratti da qualcuno di impresentabile, imbarazzante, che parla alla parte più torbida, oscura di voi? Così la protagonista di Scompartimento n.6 è attratta da Lyokha, e così la Finlandia ama la Russia. Naturalmente non c’è niente di imbarazzante nella Russia di per sé, nella sua cultura, nel suo popolo; ma il modo in cui il potere è esercitato, la corruzione, le disuguaglianze, sono quanto di più lontano dalla Finlandia, che è un paese profondamente egalitario – un paese in cui nessuno gira in Lamborghini, al massimo su una Volvo, e in cui né il classismo svedese né lo spirito di corpo tedesco hanno mai attecchito. Cinque milioni di pari, fra cui la premier che frequenta i bar senza guardie del corpo.

Eppure, nessuno capisce la Russia quanto i finlandesi. Sono gli unici a essere così vicini (la Siberia comincia in Lapponia, con 1.350 chilometri di confine) e a essere rimasti sempre così altro, anche a costo di grandi sacrifici. La Russia alle porte è sempre stata un pericolo reale, atteso. Il vicesegretario del partito socialdemocratico in visita in Italia, a proposito della storica candidatura della Finlandia alla Nato, ha dichiarato: “Tutti i finlandesi sarebbero pronti ad andare al fronte”. Quello che non è facile per noi capire è che sono pronti da sempre e sono pronti davvero, militarmente e strategicamente. Quel che è cambiato dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina è che prima i finlandesi pensavano di essere pronti da soli, di potersi difendere da soli, ora invece lo vogliono fare assieme alla Nato, assieme a noi. Per essere più forti dentro l’Alleanza atlantica, certo, ma anche per potersi mettere a disposizione degli alleati, degli altri. Qualcuno dice che i finlandesi siano i soldati migliori del mondo: di certo c’è che gli ucraini negli ultimi otto anni hanno chiesto all’esercito finlandese di condividere conoscenze e addestramento. Anche per questo l’unico termine finlandese che ce l’ha fatta a imporsi fuori dai confini nazionali è sisu, un concetto di resistenza e coraggio che coinvolge la mente e il corpo, forza di volontà senza fronzoli né manie di grandezza, quieta tenacia nel fronteggiare le difficoltà.

È più facile dire della Finlandia cosa non è: non è Scandinavia (ma è Nordics); non ha una lingua indoeuropea; i finlandesi non sono discendenti dei Vichinghi, ma soprattutto non sono Svezia, un paese che li ha dominati (o ha tentato di dominarli) dal XII secolo al 1809. In questi sette secoli, la lingua svedese non si è mai imposta se non nelle zone più a ovest. Soltanto un 5 per cento della popolazione – in discesa – la parla come lingua madre. Eppure, e non è un caso, la Finlandia la tiene come lingua ufficiale del paese, accanto al finlandese, e la insegna a scuola. Un chiaro intento di restare ancorati all’occidente, e distanziarsi dai vicini russi.

La storia della Finlandia con la Russia inizia nel 1809 e finirebbe, a rigore, nel 1917, quando il paese dichiara l’indipendenza e si appresta a diventare la cosa a sé che conosciamo oggi. Con la Russia la storia è più turbolenta della cordiale resistenza passiva riservata alla Svezia, ma alla fine dei molti rivolgimenti e sconquassi della Seconda guerra mondiale, miracolosamente, la Finlandia riesce a uscirne in buoni rapporti con la Russia. Né nel blocco sovietico né in quello occidentale. Da questo equilibrio unico nasce il termine “finlandizzazione”, che ha una connotazione ambivalente ma che è un modello che si è rivelato non applicabile ad altri stati. Se ne potrebbe trarre l’idea di un popolo un po’ servile. Al contrario durante la Guerra Fredda non si sognavano neppure di depotenziare il loro apparato bellico, e più tardi mentre noi millennial crescevamo nella certezza della pace, i coetanei finlandesi facevano la leva obbligatoria, effettiva: addestramenti nelle foreste in inverno, tecniche di sopravvivenza, tuffi in laghi ghiacciati, manovre col fucile. Quelli più progressisti dicevano: “Figurati, la guerra non si combatterà più così”, ma tutti adempivano al compito, perché la cosa più grande che c’è in Finlandia è una fiducia assoluta nelle istituzioni, negli altri, nelle intenzioni collettive.

Nessuno resta fuori da questa collettività, anche nella quotidianità: la Finlandia implementa la politica dell’housing first, che consiste nel dare una casa a chiunque non abbia fissa dimora, prima di risolvere problemi di dipendenze, di salute mentale, di microcriminalità. Non devi dimostrare di aver superato i tuoi problemi per meritarti una casa. La prendi, poi se vuoi hai accesso a tutta una serie di servizi per affrontarli. In questo paese i dipendenti pubblici hanno l’obbligo di aiutarti a pagare meno tasse possibili in base alla tua fascia di reddito, la burocrazia è precisa ma logica, non c’è bisogno del commercialista.

Molto del lavoro politico della Finlandia è quello di preservazione attiva: preservare lo stato sociale, i confini, preservare la fiducia e l’equilibrio fra le tre forze che circondano il paese, e la Russia era un attore importante in questo scambio dinamico e alla pari: scambi commerciali, culturali, umani.

Per la generazione che oggi ha sessanta, settant’anni, questa guerra ha segnato la fine di quel fascino per la Russia (molti di loro hanno studiato a Mosca o San Pietroburgo) e la fine di quello stare sul limite, anche del pericolo, senza perdere l’equilibrio. Per la generazione che ha fra i trenta e i quaranta anni, questo è un ulteriore avvicinamento all’Europa in linea con il modo in cui sono cresciuti (loro hanno fatto l’Erasmus e hanno studiato in America). Mi hanno fatto notare che c’è una consapevolezza della libertà unica nell’approccio finlandese alla guerra. Esiste anche un reality sulle pratiche del servizio militare: è così privo di ideologia che sembra Giochi senza frontiere. Se soffri di vertigini, non salti, se hai paura dell’acqua nuoterà un compagno al posto tuo. L’alterità della Finlandia sta nel dosare gentilezza e fermezza, sta nell’andare sempre verso l’altro per aiutarlo, conservando i propri confini personali – l’adesione storica alla Nato ne è la rappresentazione esatta. Noi non la capiremo mai del tutto, questa alterità, ma è il segreto, anzi forse l’arma segreta, dell’Europa.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.