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Quel mostro di madre

La questione morale e immorale del desiderio. Mentre tutti mi chiedono: e con i figli, come fai? Non lo direbbero a un padre, ma non è questo il punto. Il punto sono le forze in conflitto fra loro. Doris Lessing lo sapeva già: l’io è diviso

Quando si prova un sentimento morale, l’autocompiacimento è sempre in agguato. Assegnare una coloritura etica alle proprie emozioni può spingere a essere fieri di sé stessi.
Noi contro loro. Le persone moralmente corrette contro quelle immorali. Fare in modo che qualcun altro abbia torto perché noi possiamo avere più ragione.

Claire Dederer, “Mostri” (Altrecose)

 

Ed ecco che finalmente si arriva al punto. Può un mostro essere un grande artista? Può Claire Dederer, scrittrice e giornalista americana, continuare a ritenere Rosemary’s Baby un capolavoro, nonostante le nefandezze iper raccontate su una ragazzina di tredici anni? Possiamo distinguere le biografie dalle opere e amare ancora Io e Annie di un amore struggente e indissolubile? Ognuno darà la risposta che ritiene, che non è affatto semplice ed è questo il bello della domanda complessa, tanto che Dederer scrive sulla questione un intero interessantissimo libro (Mostri, distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan, Altrecose è una collaborazione tra Iperborea e il Post). Libro nato da un articolo su una Paris Review di parecchi anni fa che io ho prima sottolineato, poi strappato dalla rivista, poi infilato in una cartellina, poi utilizzato in ogni sua parte. Ma non è questo il punto. Il punto non è Roman Polanski, né Woody Allen, né la cancel culture.

Il punto, in questo momento esatto della mia vita, sono le madri che abbandonano. È buffo che gli uomini mostri siano gli stupratori, molestatori, manipolatori eccetera, cattivissimi come Picasso, predatori seriali, e le donne mostro siano invece le madri negligenti e distratte. Quelle che a un certo punto dicono: ciao io parto, bambini non ho più tempo per voi, devo scrivere un libro, devo essere libera, devo andarmene da voi e non voglio lavare nessun cazzo di piatto, guardare nessun cazzo di cartone animato, è inutile che gridi mamma perché la mamma sta fuggendo. Già solo a scriverlo mi vengono i brividi, del resto. Dederer racconta di Doris Lessing, che nel 1949, a trent’anni, abbandona i due figli avuti dal primo marito, se ne va a Londra con il terzo figlio (oddio! Ne ha scelto uno) e con il manoscritto L’erba canta, il suo primo libro. Pubblica il libro, ha grande successo, diventa una celebrità letteraria e infine vince il Nobel, sempre con questo terzo figlio appiccicato che morirà con lei nel 2013 nel giro di poche settimane. Un mostro? Una grande artista? Una cattiva madre da giudicare malissimo per sentirci madri amorevoli, sacrificabili, attente. Una cattiva madre di cui distruggere l’opera per immoralità? Ovviamente un padre che lascia i figli perché deve assolutamente scrivere quel libro o essere un uomo libero non è un mostro, è solo un uomo libero, è un artista. A casa ci sarà una buona madre senza velleità che gioca tutto il giorno con i mattoncini Lego e non guarda fuori dalla finestra. Oppure che cova una rabbia.

Doris Lessing scrive nel Taccuino d’oro riguardo alla «malattia delle donne del nostro tempo»: «Li avverto sul viso delle donne, nelle loro voci ogni giorno, e nelle lettere che arrivano in ufficio. Il sentimento della donna: il risentimento contro l’ingiustizia, un veleno impersonale. Quelle sfortunate che non sanno che è impersonale lo rivolgono contro i loro uomini. Le fortunate, come me, lo combattono». Forse è vero che è impersonale, ma è un veleno che va combattuto anche nelle altre donne. Nelle buone madri. In quelli che vogliono avere ragione e che però non sono immuni da desideri attorcigliati. In Claire Dederer, che ha l’onestà di dire: mi attrae e mi respinge, ma come scrittrice mi attrae moltissimo.

Ho due figli adolescenti, uno di quindici e una di diciotto, come qualcuno ormai sa visto che non mi sono fatta scrupolo di saccheggiare le loro vite e la mia per scrivere. Da un anno ho un lavoro che mi piace tantissimo in un’altra città a cinque ore di treno, quattro ore e venti quando è una festa. Ho preso una casa piccola in affitto, con un divano letto su cui idealmente accogliere i ragazzi, vado avanti e indietro come tutti. Eppure io non sono come tutti. Visto che tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, come prima cosa mi chiedono sgranando gli occhi: e i tuoi figli? Come fai?

Io rispondo sorridendo che li ho portati in un bosco e abbandonati là. A quel punto sorridono anche loro, a volte se sono molto fortunata si imbarazzano per la domanda, a volte sospirano: beata te. Al padre di una figlia diciottenne chiederebbero con lo stesso sollecito sgomento: ma come fai? Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto, come scrive Claire Dederer a partire da Doris Lessing e Joni Mitchell (madri che abbandonano) è l’io diviso. Non un’anima divisa in due, proprio un io. La soggettività, che è diversa dal sentimento ma che è costruita sul desiderio.

Mi chiedo se in una metà di questa divisione stia qualcosa che ha a che fare con il mostruoso, o se sia semplicemente tutto umano. Voglio scappare, voglio chiudere la porta alle mie spalle, voglio smettere di provare questa noia languida che mi incolla il cervello.

Janet alzò lo sguardo dal pavimento e disse: “Vieni a giocare, mammina”. Non riuscivo a muovermi. Dopo un po’ mi costrinsi ad alzarmi dalla sedia e a sedermi per terra vicino alla bambina. La guardai e pensai: questa è mia figlia, la mia carne e il mio sangue. Ma non riuscivo a sentirlo. Disse di nuovo: “Gioca, mammina”. Mossi i cubi di legno per costruire una casa, ma come una macchina. Costringendomi a eseguire ogni movimento. Mi vedevo seduta sul pavimento, il quadro di una “giovane madre che gioca con la bambina”. Come in un’inquadratura di un film o in una fotografia.

(Doris Lessing, Il Taccuino d’oro)

Doris Lessing, scrive Dederer, non ti dice che cosa dovresti provare, ma che cosa hai provato. Quel fastidio misto a spavento di non essere abbastanza brava, misto a orgoglio di non esserlo di certo, misto a rabbia perché stai lì sul pavimento mentre vorresti scappare e, molti anni dopo, misto a rimorso perché adesso su quel pavimento ci staresti per dieci ore ma non c’è più nessuno che dice: vieni a giocare, mammina. Solo porte chiuse, malumore, un grande altrove in cui gettare tutto.

Un bel casino, ancora più che un io diviso. Più interessante di Polanski, di Woody Allen, di Michael Jackson.

Due forze che si scontrano l’una con l’altra nel momento della massima forza creativa, fisica, morale. Due forze che spingono in direzioni opposte, e intorno tutto il mondo, te stessa compresa, che guarda con sollecito sgomento. E una domanda gigantesca, che non è una risposta ma ci si avvicina molto.

Che cosa facciamo con le persone orribili della nostra vita? Quasi sempre continuiamo ad amarle.