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Raccomandazioni per un uso vitale della lingua

Le parole sono troppo solide e troppo sfuggenti: ci tradiscono e non fanno una piega. La differenza non è ammessa, ma il sesso pesa: apre una forbice tra la vita e il mondo in movimento. Tutta la fatica (e la bellezza) è nostra: all’inseguimento del futuro

Words are too solid, le parole sono troppo solide, scriveva Suzanne Vega in una canzone rimasta oltre il tempo. Il titolo era Language, invocava una lingua liquida, capace di correre, catturare imprecisioni, sfocature. Ma le parole tradiscono, cantava nella strofa successiva, sono solo la superficie dura, croste di significati inespressi che nascondono reami ai quali nessuno ha mai avuto accesso – realms underneath. Troppo solida e troppo sfuggente: non si potevano evocare con tratti più efficaci la lingua e il paradosso che la tiene stretta. La tensione tra il movimento fluido della mente e la ricerca di forme espressive capaci di catturarlo; la necessità di trovare le parole e la scoperta che a volte i vocaboli invece di rivelare il senso lo coprono. Eppure, non abbiamo altro. Per dare senso all’esperienza del mondo abbiamo solo questa lingua, ingombrante e talvolta insoddisfacente. E’ la nostra forma di vita e saremo sempre grati a Wittgenstein per averlo scandito con chiarezza. Bisogna, allora, venire a patti con i suoi limiti, passare attraverso le sue maglie imperfette per salvare un pensiero che il flusso indistinto della coscienza altrimenti trascina via – that flies by and is gone, gone, gone.

Di lingua parliamo molto, troppo dice qualcuno. Forse è vero, ma su cosa si concentra questa discussione? Su cosa ci confrontiamo, dividiamo, litighiamo? Non sul paradosso che ci ha mostrato Suzanne Vega. Discutiamo della lingua facendola a pezzi: isoliamo desinenze, declinazioni, articoli, pronomi. Qualche volta alziamo lo sguardo sulla grammatica e le sue regole; qualche altra risaliamo alle parole, le mettiamo in rapporto con questioni che non sono linguistiche come la correttezza, l’inclusione, la discriminazione, il potere. Ma così il discorso resta frammentato, sparso, condannato a ricominciare ogni volta da capo; soprattutto, finisce per eludere la domanda di fondo: che posto ha la lingua? Le parole vengono dopo le cose, specie se sono serie, o le precedono? La lingua, come l’intendenza, segue, o può arrivare a riscrivere e ridefinire il mondo, le esperienze, le persone? Dire è fare o semplicemente etichettare? Non sono domande per specialisti, non riguardano linguisti o filosofi orfani dei circoli di Cambridge. Riguardano noi e come abbiamo visto arrivano ben dentro le nostre vite.

Partiamo dall’esempio più recente, ossia dai dilemmi linguistici che hanno accompagnato l’insediamento del governo guidato dalla prima presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Dopo quasi un secolo dalla nascita della Repubblica, una donna arriva ai vertici del potere politico: un tornante di storia, un inedito. Come ne dà conto la lingua? Con più tranquillità di noi, verrebbe da dire. Dal punto di vista tecnico il sistema non ha nessuna difficoltà a dar conto del cambiamento: come noto in italiano – diversamente dal latino – non esiste il genere neutro, si è perso nei tornanti della storia linguistica, abbiamo solo il maschile e il femminile. Presidente è un sostantivo che deriva da un participio latino, come docente; di conseguenza, per identificare chi svolge la funzione descritta, ossia per capire se chi presiede – chi insegna – è uomo o donna, è sufficiente declinare l’articolo che lo accompagna: come diciamo “ho parlato con la docente di fisica” diremo “le prime mosse della presidente”. La lingua, insomma, non fa una piega, può accompagnare tranquillamente la storia e gli inediti: aveva le risorse per esprimere il sesso e il lavoro delle professoresse, può farlo oggi per le presidenti, quali che siano gli organi che sono chiamate a guidare.

La fatica la fanno invece i parlanti – cioè noi – come hanno mostrato il cortocircuito dei primi documenti presidenziali, le note relative agli incontri europei e la discussione che ne è nata. Come noto, Meloni ha cancellato dal proprio appellativo il riferimento al sesso: ha chiesto espressamente di essere chiamata “il presidente del Consiglio”. Nello stesso momento in cui afferma l’irrilevanza della lingua sul terreno politico, dichiarando che “la libertà delle donne non è farsi chiamare capatrena”, finisce per assumerla come tratto identitario. Rifiuta le battaglie sulla correttezza politica della lingua ma ne introduce un’altra, dando indicazioni tassative sull’appellativo da adottare per riferirsi alla sua carica. Verificato poi che grammatica e semantica non viaggiano su binari separati e che “signor presidente on. Giorgia Meloni” qualche problema lo crea, torna indietro rispetto alla formulazione iniziale, cancella il primo elemento dell’appellativo, per capitolare alla fine con un “chiamatemi Giorgia”. La solidità delle parole si è imposta: gli inciampi hanno mostrato quanto la forza espressiva della lingua sia profondamente radicata nel senso comune. Le ragioni che rendono segretaria e sindaca parole diversamente accettabili non hanno che fare con le regole dell’italiano, sono, come recita il gergo specialistico, extralinguistiche, ossia appartengono alla cultura, alla società, alla storia. Il confine tra lingua e mondo, però, non è così netto come vorremmo credere: il linguaggio assimila e restituisce. Ha assorbito nel profondo l’estraneità delle donne alla sfera pubblica e ha manifestato tutte le resistenze del caso: la cacofonìa, ministra non va bene perché somiglia a minestra, femminicidio è una parola respingente e così via: l’elenco è lungo.

La battaglia, attenzione, non si gioca solo sul terreno del lessico – le parole da dire o non dire – ma soprattutto su quello più profondo della sintassi – il motore della lingua – e dei pezzi che lo tengono insieme, la morfologia. Queste parti più piccole – marche variabili, terminazioni, uscite – portano un carico notevole: sono loro a garantire coesione e tenuta ai nostri discorsi. L’intreccio tra pensiero e linguaggio a questo livello è strettissimo, di questo intreccio siamo però poco consapevoli e di conseguenza molto condizionati, come mostrano le sequenze appena osservate. Ma se non alziamo lo sguardo, provando a guardare l’insieme del movimento della lingua e il modo nel quale ne siamo coinvolti, da questi errori non impariamo nulla. Sarebbe ora, ad esempio, di capire che il problema non è l’inclusione, l’allargamento. La lingua è di tutti, occorre solo metterla nelle condizioni di fare la sua parte. Esistono astronaute, avvocate, chimiche, ora persino una presidente del Consiglio: perché non si può dire? Contano i fatti, si dirà, certo; conta che siano caduti gli ostacoli – formali e sostanziali – che impedivano alle donne di dispiegare il proprio talento; conta che i soffitti vengano giù, senza dubbio. Ma allora perché non si possono rappresentare per intero le tappe di quest’avventura? Perché Merkel – Bundeskanzlerin – e oggi Von der Leyen – Presidentin – possono riassumere, in una parola sola, la propria storia?

Solitude standing, l’album di Suzanne Vega che conteneva Language, uscì nel 1987. Nello stesso anno, veniva pubblicato il pionieristico lavoro di Alma Sabatini delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua. Il libro ebbe molte recensioni, alcune non esattamente amichevoli. Le critiche ruotavano intorno all’affermazione del carattere ontologicamente asessuato di – certe – professioni e all’impossibilità di accostare il genere alla funzione: la pretesa delle autrici di declinare l’indeclinabile, andava, dunque, respinta. Ma cosa vuol dire separare il genere dalla funzione? E’ possibile staccare la lingua dalla vita?

Credo di essere andata a sbattere contro questa impossibilità nello studio di un autorevole professore al quale avevo chiesto una lettera di presentazione per una borsa di studio in una Università degli Stati Uniti. Stavo concludendo il dottorato, la domanda richiedeva diversi tipi di documenti, avevo tempi strettissimi e come al solito mi ero ridotta all’ultimo giorno. Il professore fu solidale, mi ricevette a casa sua, un bellissimo appartamento all’Aventino, e dall’altro capo della scrivania mi dettò la lettera in italiano: “la traduca poi lei”. Mi descrisse come uno “studioso maturo”, obiettai, mi rispose che le studiose sono un’altra cosa: giovani diligenti che si applicano molto. Non capiva la mia insistenza nel perorare un evidente declassamento. A me invece il messaggio era arrivato forte e chiaro. La via d’uscita sembrava garantita dalla traduzione: in inglese scholar è una parola neutra, il problema poteva dirsi superato. Non lo era: se il sistema dei generi dell’inglese mi aveva consentito di chiudere la busta in tempo per mandarla a Boston, nella mia testa la questione restava aperta. Erano passati dieci anni dalle Raccomandazioni, dai commenti indignati che ricordavano quanto tempo avessero impiegato le donne “a farsi chiamare, quando se lo meritavano, avvocato, magistrato, medico”. Stavamo ancora là, mi dicevo, alle carriere separate, alle donne meritevoli di cambiare genere. Mi era chiaro, però, che il punto non era la discriminazione, e nemmeno il progresso, che può prendere le vie più diverse; si trattava, invece, di fare i conti con la prima interdizione a dare conto di me, con qualcosa che riguardava non ciò che facevo ma ciò che ero.

Il giudizio del professore, portavoce di una tradizione plurisecolare, non si limitava a confinare una parte dell’esperienza all’ombra del non detto, o del nome altrui, ma affermava che l’identità, di uno studioso come di chiunque svolga una funzione creativa, può avere solo e soltanto una forma: la differenza non è ammessa, non può accedere al senso, qualunque sforzo faccia.

Il sesso – che non sta solo nelle mutande, anche se ora piace descriverlo così – pesa, apre una forbice tra la vita e la lingua che non è facile ricomporre. Le risposte per riaccostare i due termini non sono univoche: la libertà delle donne è un cammino irreversibile, a tratti drammatico, ma sta ridisegnando il mondo. Preme perché la lingua ne dia conto, cerca parole capaci di contrastare il silenzio, attraversare culture e portare alla luce l’esperienza millenaria che la storia ha nascosto – never touched, never stirred, never even moved through –. In quell’esperienza c’è il seme del futuro, come mostra il coraggio delle donne iraniane, lottare perché non resti invisibile, perché non scorra via – gone, gone, gone – è l’unica cosa che conta.

Fabrizia Giuliani (Roma, 1966), insegna Filosofia del linguaggio e Studi di genere alla Sapienza di Roma. Tra i suoi ultimi lavori: “La lingua di Gentile” (Treccani, 2016) e “Le parole per non dirlo, la violenza nella lingua del giudice” (FrancoAngeli, 2021). Dallo scorso maggio coordina il comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla violenza contro le donne.