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Ridere dal letto d’ospedale

A meno che tu non sia Philip Larkin, è difficile parlare di malattia senza sembrare ridicoli, tronfi. L’importanza della comicità nella più intima e seminuda delle avventure umane: Chiara Galeazzi ci è riuscita. «Signora, guardi che lei ha un’emorragia cerebrale»

Ho sempre trovato sorprendente quanto poco gli scrittori – narratori, filosofi, moralisti eccetera – abbiano scritto della malattia, cioè non della malattia in generale ma dell’essere malati, dello stare male. Avanti, senza sfogliare internet, provate a elencare, diciamo, cinque romanzi, cinque poesie, cinque saggi che raccontino o riflettano sulla condizione di malati. La montagna magica, L’uomo col fiore in bocca, un po’ (ma solo un po’) La morte di Ivan Il’ic, qualche racconto di Cechov… E poi? E adesso invece provate a fare lo stesso esercizio sull’argomento “amore”. È più facile, vero? C’è da citare una buona metà della letteratura occidentale. Eppure, anche se può far piacere raccontarsi il contrario, quella di innamorati non è una condizione universale, mentre quella di malati lo è. Eppure in media si passa molto più tempo da malati che da innamorati, e c’è gente che nasce e per tutta la vita non conosce un minuto di vera salute, se non nel sonno. Eppure la malattia segna e tormenta tanto quanto l’amore, e anche di più.

Ci sono I promessi sposi? Il diario dell’anno della peste di Defoe? Ma qui non mi riferisco alla cronaca delle epidemie, delle malattie che si abbattono sui popoli, viste dall’alto e da fuori; e neanche alla malattia come metafora (La peste di Camus, il Filottete); mi riferisco alla narrazione-riflessione sulla propria malattia, o su quella di un proprio personaggio. Forse essere malati, costretti a letto, è così ovvio e naturale, era così ovvio e naturale specialmente in passato, quando si moriva anche per un’influenza, da non far venire in mente niente neanche al più fervido degli scrittori; forse non è materia abbastanza varia per un romanzo vero e proprio (di fatto, la cosa migliore che ho letto sul Covid – il Covid patito non il Covid visto alla tv – sono state cinquanta paginette di Luca Pietromarchi uscite da Viella nel 2021: Zero virgola io. Prose brevi dalla terapia intensiva).

Come che sia, ci sono due modi opposti di parlare della malattia, a seconda che si prema il pedale del dramma o quello della farsa, e anche forse a seconda che si guardi al generale, che è sempre tragico, o al particolare, che è spesso comico («La vita di ogni individuo, considerata nel suo complesso e vista soprattutto nei suoi aspetti più significativi, è in verità sempre una tragedia; se però ci si sofferma sui particolari, assume il carattere della commedia»: Arthur Schopenhauer). Quanto al primo modo, dicevo che non saprei citare molti racconti ospedalieri; mentre posso citare una poesia bellissima, e non molto nota, di uno dei più grandi poeti del Novecento.

Negli anni della maturità, Philip Larkin (1922-1985) dovette frequentare spesso gli ospedali: per il padre, che morì prematuramente, per la madre, che entrò e uscì dagli ospedali psichiatrici, e per sé stesso (varie malattie agli occhi, alla pelle, poi poco dopo i sessant’anni il cancro all’esofago che lo ha ucciso). Nel corso di un decennio, tra i primi anni Sessanta e i primi anni Settanta (era un poeta lento), scrisse una lunga poesia intitolata The Building. L’edificio in questione è un ospedale, precisamente il Kingston General (lo hanno abbattuto una ventina d’anni fa); e la poesia descrive la gente che riempie le sale d’attesa: «Alcuni sono giovani, / altri vecchi, ma per lo più in quella vaga età che riconosce / la fine delle scelte, il capolinea della speranza». Dopo aver descritto a lungo questi grigi pazienti dell’ospedale in attesa, nella settima stanza Larkin cambia registro e punto di vista, e dice una cosa in sé niente affatto nuova – che la vita è un sogno – ma la dice in un modo meravigliosamente originale, e terribile: la vita è un sogno che sogniamo tutti insieme, e la morte sarà il ridestarsi, da soli (da soli, qui sta soprattutto l’orrore), a una veglia eterna:

 

… O world,
Your loves, your chances, are beyond the stretch
Of any hand from here! And so, unreal
A touching dream to which we all are lulled But wake from separately. In it, conceits And self-protecting ignorance congeal
To carry life, collapsing only when Called to these corridors.

… Oh mondo,
i tuoi amori, le tue occasioni, qui dentro nessuno
potrà più raggiungerli! E così, un sogno irreale e commovente che sogniamo all’unisono
ma da cui ci svegliamo da soli. E nel sogno trasciniamo la vita, con vane idee e caparbia ignoranza,
che collassano soltanto quando qualcuno ci chiama a questi corridoi.

Ecco una meravigliosa poesia sui ricoveri in ospedale, sulla malattia, sul presentimento della morte che grava su tutti, perché tutti prima o poi verremo «chiamati a questi corridoi» (la poesia non finisce qui, e gli ultimi versi tolgono veramente il fiato, sia per la bellezza sia per la fitta di dolore che provocano). Ma chi può mettersi su questa strada – la strada della riflessione seria, tragica sulla malattia e la morte – senza diventare ridicolo, retorico, tronfio? Bisogna essere sovranamente bravi, e nessuno era bravo quanto Larkin a trovare un punto d’equilibrio tra la drammaticità dei destini umani e i tanti aspetti buffi o ridicoli dell’esistenza.

Così resta il registro comico, il ridere della disgrazia.

Un giorno, senza che avesse fatto nulla di male, Chiara Galeazzi è stata colpita da un ictus. Era lì sul divano che perdeva tempo su YouTube guardando un tale o una tale che aveva sempre trovato/a insopportabile («Mentre guardavo questa intervista, e ripensavo a certi scambi avuti con quest* stronz* – per rendere più caotica e meno riconoscibile la descrizione, userò gli asterischi – cominciavo a innervosirmi. Ma vedi te se c’è che gente che si deve cagare quest* coglion*, pensavo») e ha cominciato a sentire un formicolio al braccio. Solo effetto dell’irritazione, bastava chiudere YouTube? Ma dopo un po’ ha avuto difficoltà a muoverlo, il braccio, poi le si è intorpidita tutta la parte sinistra del corpo. Lo Xanax consigliato da amici informati non è servito a niente. Ha chiamato un amico, hanno chiamato un’ambulanza. Emorragia cerebrale: non fatale, ma abbastanza grave da tenerla in ospedale per più di un mese e in riabilitazione – ha dovuto reimparare a usare gli arti – per più di un anno.

Da questa brutta esperienza poteva venir fuori un libro lagnoso o – peggio ancora – pensoso sul personaggio “io”: i suoi pensierini sulla vita e sulla morte, “quello che la malattia mi ha insegnato”. Invece per fortuna no, è soprattutto un libro sul personaggio “gli altri”, ed è la ragione per cui è anche un libro divertente. Perché fra i tanti vantaggi che porta con sé la salute c’è questo, che ci permette di tenere gli altri a debita distanza (ecco una constatazione che Larkin avrebbe approvato con trasporto, lui così insofferente alla folla). Li si incrocia al lavoro, gli altri, o sul tram, o per la strada, o sulla spiaggia; ma si può sempre mangiare da soli, si può sempre dormire in un’altra stanza, ci si può sempre chiudere nel bagno per un’ora. Ma se si cade nella malattia questo vantaggio, questa libertà viene meno, e la norma dell’esistenza diventa quella compendiata nel duro motto di Kafka: «E’ inutile chiudersi in casa: si è nella loro».

Essere malati significa infatti non avere più il controllo del proprio corpo, dipendere dagli altri per mangiare, lavarsi, alzarsi dal letto, orinare, defecare da sdraiati. Ma non c’è solo il nostro corpo che diventa nemico, c’è anche quello degli altri. Dopo anni, dopo decenni di privacy gelosamente protetta si è costretti a dividere la stanza con sconosciuti anche molesti (Galeazzi fa un paio di ritratti molto riusciti di compagni di stanza insopportabili: un maschio tossico di mezza età e una giovane petulante incatenata al cellulare che non riesce a vivere senza raccontarsi in presa diretta: «Certo zia… Ma tu lo sai che sono una combattente»), dopo anni di asepsi si è costretti a sentire i loro rumori, i loro odori, a mostrarsi nudi o seminudi. Fino alla generazione dei nostri nonni, persino dei nostri padri, non era neanche una cosa troppo strana: per molti era la promiscuità indotta dall’essere poveri, in cubature minimali («si dormiva tutti in una stanza», non è una frase che si trova in una buona metà dei memoir novecenteschi?); per tutti era la semplicità di vita imposta da un mondo ancora più naturale che artificiale, e in cui quindi la natura faceva meno paura e meno schifo. Ma adesso no, adesso i corpi degli altri sono immondi, figuriamoci le loro deiezioni. L’ospedale è il posto in cui gli altri ci vedono e noi vediamo gli altri, una doppia tortura per le anime sensibili, le psicologie complesse, gli esseri umani molto civilizzati vale a dire abituati a poter contare su una linea ben chiara che separi la sfera pubblica da quella privata. E poi fuori dall’ospedale ci sono gli amici e i conoscenti, quelli a cui bisogna pazientemente ripetere “cos’è successo”, e che invece di tirare via e cambiare argomento si mettono (metaforicamente) a letto coll’ammalato, prendono su di sé non richiesti un pezzo del suo dolore (il titolo Poverina viene da lì). Il fatto è che la rimozione dell’idea del dolore e della morte, nella mentalità comune, è arrivata a un punto tale che la vittima del dolore diventa tabù, diventa SOLO la sua malattia, come se la malattia non facesse parte della vita. Per tutti i mesi della convalescenza, la conversazione non supera mai veramente lo stadio di accoratissimi «Ma come stai?» iterati cinque, sei volte in dieci minuti di conversazione: «Le donne me lo chiedevano con gli occhi tristi e una mano posata sul cuore, il labbro inferiore che sporgeva un pochino, le sopracciglia che andavano aggrottandosi sempre di più. Avrei voluto tirare un cazzotto in mezzo a quelle sopracciglia». Basta così? No, perché a complicare le cose, a rendere ancora più insopportabile, infernale il personaggio “gli altri”, ci sono adesso gli sconosciuti che saltano fuori da internet. Qualche giorno dopo il ricovero Galeazzi pensa di comunicare la notizia su Instagram con un post semi-spiritoso. Galeazzi non è veramente famosa ma è nota: è un’autrice televisiva, ha lavorato per riviste come Vice e Rolling Stone, da un paio d’anni è una delle nuove conduttrici di Radio Deejay. E scrive, anche: un paio d’anni fa ha pubblicato su Medium un pezzo molto bello e molto intelligente dal titolo Una settimana da Immuni: era entrata in contatto con un infetto, e aveva dovuto passare una settimana reclusa in casa d’altri. Dunque scrive il suo post su Instagram, e dopo qualche ora sulla sua pagina sbarcano in massa i No vax augurandole le peggio cose, deducendo, dal niente che sanno, storie di vaccini andati storti, di complicità nella diffusione del morbo.

Così il tema di Poverina non è veramente la malattia, che è per forza un tema usurato, ma la malattia a un’età in cui di solito non ci si ammala gravemente (non ci si ammala oggi, si capisce: a trentacinque anni Kafka aveva la tubercolosi da un pezzo, e Alessandro Magno aveva già fatto in tempo a conquistare mezza Asia e a morire), e soprattutto la malattia nell’epoca di internet e dei telefoni cellulari, quando anche la più intima delle avventure umane (la paralisi, la morte sfiorata) dev’essere agita in pubblico.

Lo stile con cui Galeazzi racconta questa catena di disgrazie/fastidi un po’ naturali un po’ indotte dalla téchne è rapido ma non stenografico, elegantemente parlato, pieno di humour e sprezzatura (tanto più commendevole in quanto pare che nella vita l’autrice sia una dalla lacrima facilissima: o così si rappresenta). Ha un bel modo di descrivere il modo in cui gli altri si comportano e parlano, un bel modo di portare le battute, di mimare i dialoghi: scrivere testi per la rete, la radio e la tv serve. C’è una visita da Gucci per comprare dei mocassini da milionaria che vale da sola il prezzo del libro. E ho riso ad alta voce a questa chiusa di paragrafo (la poverina pensa ancora di poter recitare la sua parte da stoica che sdrammatizza): «Continuavo nella mia convinzione che si trattasse di un attacco di panico, una delle volontarie dell’ambulanza mi dava retta su questa cosa. Continuai a pensarlo anche quando il primo medico del pronto soccorso mi chiese di alzare entrambe le braccia davanti a me e la sinistra non mostrò nessuna intenzione di alzarsi, lasciandomi lì in un imbarazzante saluto romano. Pensavo all’attacco di panico anche quando ero dentro la macchina della Tac per un controllo alla testa. Ero così convinta che quando il medico tornò verso il mio letto tutto serio dicendo: “Signora, guardi, lei ha un’emorragia cerebrale”, io gli risposi ridacchiando: “Eeeeh, addirittura”».

Quanto alla struttura del racconto, c’è qualche filo lasciato lì a pendere (la storia appena accennata e non ben sviluppata di un ex fidanzato che, lui solo fra tutti i messaggianti, non si fa mai sentire), qualche pagina non felice (non si prendono in giro i preti che girano nelle corsie! O non con questa petulanza: p. 83), ma nel complesso si legge il libro con vero piacere, il piacere che viene dall’incontro con una persona molto simpatica che è anche brava a scrivere. Non ricordo chi, se qualcuno dei Monty Python o degli Elio e le Storie Tese, ha detto che la nuova frontiera della comicità dovrebbe essere la morte, prendere in giro la morte, la propria e quella degli altri. Non siamo ancora lì, con l’emorragia cerebrale, ma la strada è segnata. Ancora uno sforzo.

Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. Tra i suoi ultimi libri: “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca” (il Mulino, 2020) e “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?” (Rizzoli, 2021).