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Se Barbie è scema, lo siamo tutte

Non è un’icona femminista, ma un gioco per maschi non avrebbe mai subìto un processo del genere. È frivola, pensa ai vestiti, alla sua casa da sogno e per niente ai figli, si rifiuta di invecchiare e non porta sulle spalle tutti i mali del mondo. Aspettando il film di Greta Gerwig, con la certezza che non tutto quel che è rosa è demenziale

Su una cosa siamo tutte d’accordo: l’ascensore della casa dei sogni di Barbie. Modello 1990, era la prima casa di Barbie rosa. Colonne doriche, finestre palladiane, costruzione in cartone con inserti in plastica. L’ascensore si tirava a mano con un filo e portava Barbie dalla zona living del piano terra – con tappezzeria rosa pallido ispirata a Laura Ashley – alla zona notte, letto con fiocco e camino, e aveva anche un solarium sul tetto. Il New York Times ha un articolo illustrato con 60 anni di case di Barbie, rivisitate nel libro d’arte Barbie Dreamhouse. An architectural survey. Io ricordo solo quell’ascensore, sul quale appunto tutte concordiamo: era una gran figata. Non so se questo significa che eravamo tutte affascinate dalle costruzioni, come i bambini maschi, e che siamo state brutalmente strappate alle materie STEM – Ingegneria edile, Architettura – o che, come dice la critica culturale Elvia Wilk, le case di Barbie sono sempre state più interessanti di Barbie stessa. Fatto sta che su tutto il resto che riguarda Barbie le opinioni variano, accalorate e opposte. Non solo perché Barbie è un prodotto di largo consumo assurdamente popolare: conosciuto da tutti, più del logo di Nike, più delle patatine di McDonald’s. Ma anche perché Barbie è una femmina, e al contrario di Super Mario si rifiuta di invecchiare e di essere riposta fra le icone nostalgiche. Poiché è una femmina, si è prestata anche a essere depositaria di tutti i mali del mondo, ha subìto un processo di vilification che un giocattolo per i maschi non avrebbe mai potuto subire (è solo un giocattolo). Perché se Barbie è responsabile dei nostri standard di bellezza deviati, delle nostre mancate lauree in Ingegneria, del nostro interesse per i vestiti e l’aspetto estetico, questo ci rende tutte cretine, visto che tutte ne abbiamo avuta almeno una fra le mani, e ci mortifica, perché la verità è che la stragrande maggioranza delle donne ama Barbie, e i ricordi della propria infanzia associati a lei. Se Barbie è scema siamo sceme tutte: nessuno si è mai fatto problemi a dire che siamo sceme tutte. Nemmeno il femminismo.

Barbie è nata nel 1959 dall’ingegno di Ruth Handler, una bella signora (se si può dire, visto che è stata soprattutto una grande inventriceimprenditrice) ritratta con un choker di perle e una camicia di seta color carta da zucchero a ottant’anni insieme ad alcune Barbie storiche. Pare che le sia venuta l’idea vedendo sua figlia ignorare i bambolotti per giocare invece con dei cartonati di donne adulte. Perché bisogna bene inquadrare questa cosa: Barbie avrà i suoi difetti (ci torniamo) ma l’unico giocattolo che avevamo prima era per giocare a fare la mamma. Ora, con tutto il rispetto per l’istinto materno e le gioie della maternità, non so. Elena Gianini Belotti, nel famoso Dalla parte delle bambine, testo del 1973 recentemente pubblicato in una nuova edizione con prefazione di Concita De Gregorio, dice: «Non è alle bambine che vanno sottratte le bambole, ma dovrebbero, al contrario, essere offerte anche ai bambini». È un discorso sulla tenerezza maschile, si riferisce ai bambolotti. Non so. Non mi convince (il libro nel suo insieme è imprescindibile anche se un po’ deprimente per quanto è ancora attuale). Non mi convince proprio il bambolotto, e non ho capito perché, maschi e femmine, dovremmo giocare al lavoro di cura. Cioè che strazio. Sarà che non sono mamma e non posso capire, sarà che non ho mai giocato né con i bambolotti né con le Barbie («ma che facevo?» «boh, leggevi»). Lo scarto tra giocare a fare la mamma e giocare a fare una qualsiasi vita di donna adulta (pare che Barbie abbia fatto 200 mestieri, è stata anche presidente degli Stati Uniti già negli anni 90) è notevole. Qualcuno dice che il tipo di donna adulta che rappresenta Barbie non va bene. Barbie vive da sola in una casa sua (la casa dei sogni di Barbie), ha una macchina, un camper, mi hanno fatto notare che conduce una vita molto agiata:

«Barbie era straricca!». Non so se quella casa di Barbie sia collegata all’idea che avevo da bambina, e che ho intrattenuto fino a prova contraria, che da grande sarei stata ricca, di successo, indipendente, cazzuta. Sono pochissime di queste cose, ho una fascinazione per l’immobiliare e la vita intera mi sembra una promessa non mantenuta: c’entrerà la casa di Barbie?

Ryan Gosling, che nell’attesissimo, superhyped film Barbie in uscita negli Stati Uniti interpreta Ken, ha fatto tutto il tour di promozione con questa frase: «No house, no home, no job, Ken è un accessorio di Barbie, e neanche il più interessante».

Comunque la vita di donna adulta di Barbie non va bene anche perché lei è troppo interessata ai vestiti (ne cambia in continuazione, perché Mattel dovrà pur vendere, ma anche perché le bambine li amano), è troppo interessata alle cose materiali, è troppo rosa, raramente è avvistata con un libro e per uno dei pochi con cui si è fatta vedere è stata crocifissa: era un libro che si chiamava Come perdere peso e conteneva una sola pagina: non mangiare.

Questo film che esce il 23 luglio è più divisivo di Barbie stessa. La prima volta che ho visto il trailer mi trovavo in un cinema radical di Roma, a una proiezione pomeridiana il giorno dell’uscita del film di Nanni Moretti. Non vi dico lo sdegno della platea. Tutto un pearl clutching da parte delle signore romane. Una cosa come “non hanno proprio più gusto” “escono solo idiozie ormai”. Ora, non mi aspetto che le groupie di Nanni Moretti, che saranno corse a casa a buttare i sabot ignorando la storia della moda dei clogs, conoscano Greta Gerwig, ma quando ci lamentiamo che i giovani non hanno i codici interpretativi dell’arte cinematografica ricordiamo anche che i vecchi non capiscono la sublime intelligenza di Gerwig.

Difendere Barbie è una battaglia non mia, visto che io la snobbavo, precoce vittima dell’ideologia della “frivolezza” (no vestiti, trucchi, parrucchi, non voglio essere come mamma). Difendere Greta Gerwig, però, è una battaglia che mi intesto, e cerco di far ragionare tutte le mie coetanee che hanno visto il trailer, hanno visto il rosa, e hanno pensato a un film demenziale, semmai un oltraggio al loro gioco di bambine. Sciocco. Tutte adulte che hanno interiorizzato che quel mondo “pastello acceso” in cui pure sono cresciute e che hanno amato, è demenziale, privo di valore, un guilty pleasure.

Io ho imparato molto presto che maschile è giusto, femminile è sbagliato. Non ci addentriamo sul perché, ma questo, dopo aver capito che non sarei diventata maschio, mi ha portato nella vita a interrogarmi molto sulla femminilità, e a diventare femminista da giovane. Interrotto il sogno di diventare maschio, per un periodo gonne, tacchi e male gaze sono stati un mezzo di esplorazione. Molti anni dopo, mi pare che esista un potere femminile legato alla sessualità, all’eros femminile in sé, non oggettificati dalla cultura maschile. E questo potere passa anche da monili ornamenti trucchi e belletti, e un po’ Barbie potrebbe in effetti “reclamare il potere erotico senza sottomissione e senza chiedere scusa”. Ma la distinzione fra sessualità e sessualizzazione è un grande tema aperto del femminismo. È innegabile che Barbie sia sessuata, non solo perché è così pettoruta e ha quei lunghi capelli biondi. Il biondo è già indice di sessualizzazione, visto che nella cultura pop americana è stato associato a quello che Ginette Vincendeau, studiosa di film studies al King’s College, chiama un “paradosso della femminilità” – la pericolosa carica sessuale femminile nella bionda è addomesticata dall’essere stupida.

C’è stato tutto il tema anoressia che sarebbe stata incoraggiata dal modello Barbie, negli anni 90. Non mi appassiona perché credo la correlazione Barbie (o modelle) e anoressia sia una semplificazione irragionevole. Né io né mia sorella abbiamo avuto disturbi alimentari, nonostante lei giocasse molto con le Barbie – anche nella versione decapitazione, mutilazione, incendio, una fase comune – e nonostante (o forse grazie a?) una madre attenta a non ingrassare. Ma ho sfogliato qualche studio: c’è una correlazione fra la presenza di Barbie e un’autostima più bassa e problemi con la propria immagine. Nel 2016 sono stati introdotti modelli “curvy, petite, tall”. Dai gruppi di studio emerge che le bambine la Barbie curvy la chiamano la Barbie grassa, e che preferiscono quella magra; del resto un’imitazione chiamata “Happy to be me Doll” ha avuto vita molto breve, e il New Yorker impietoso dice: «Sarà stata anche felice di essere sé stessa, ma aveva degli standard molto bassi». Fallite anche le “Get real girls”, bambole sportive per bambine atletiche – forse perché le bambine atletiche passano più tempo a fare sport, fuori dalle case, quelle case che secondo Simone De Beauvoir sono gran parte del male dell’educazione delle ragazze.

C’è la questione del rosa: Barbie lo adotta massicciamente solo dagli anni Novanta in poi, soprattutto per l’evoluzione nella disciplina del marketing, che impara a creare brand, associazioni immediate, insomma la pubblicità in quegli anni diventa molto più raffinata. Per un brand è un grande successo creare il proprio colore: Rosso Valentino, turchese Tiffany, rosa Barbie.

Negli anni Novanta si cementifica l’associazione rosafemminile, che resta sostanzialmente ancora in piedi, nonostante il colore oggi stia vivendo un generale rinascimento (il rosa Valentino oggi è più rilevante del rosso, si veda la Valentino Pink PP Autunno/Inverno 20222023 e il revival del rosa Schiaparelli).

Gli oggetti pop possono cementificare, incancrenire delle idee culturali o riflettere i cambiamenti della società. È difficile distinguere la misura in cui Barbie riflette o reitera.

Bisogna quindi risalire all’origine di tutto, per fare una vera critica culturale di Barbie, spogliarla un attimo delle nostre proiezioni, affetti, delle cose che ci auguriamo e di quelle in cui vogliamo credere. Gli anni 50, l’America. Il periodo in cui la cultura americana creava il mito della casalinga delle zone residenziali (suburbia). Avete presente quelle grandi case, nel mezzo di quartieri fatti solo di grandi case, non un negozio non un cinema non uno Starbucks. Uno scenario da Revolutionary Road, per capirci, in cui le donne – che fino alla fine della guerra, con gli uomini al fronte, avevano lavorato e trovato una certa indipendenza – venivano isolate le une dalle altre e dal mondo, confinate a fare le torte e crescere i figli. In questo scenario, l’unica prospettiva per una donna era l’amore romantico che sfociava nella detenzione in suburbia e in frequenti esaurimenti nervosi, nevrosi, goccine, ricoveri. Viene intercettato un sogno, una favola: Barbie, la donna indipendente, single, che non si lega a un uomo e che non ha, come hanno loro, una data di scadenza. L’inventrice di Barbie sarà anche stata una donna, ma i dirigenti di Mattel sono maschi: le bambine sognano e lasciamole sognare, ma all’interno di una cornice che è desiderabile per noi. Sogna di essere sexy, di avere due tette così e una bella casa. Se Barbie non fosse stata sexy, se quel modello non fosse piaciuto ai maschi, difficilmente i padri se le sarebbero messe in casa, ’ste bambole. E in seguito: dottoressa sì, ma solo se figa, veterinaria, ma figa, insomma non devo ripetere questa parola per duecento volte, capite il concetto. Alla resa dei conti, Barbie non avrà sulle sue spalle i mali del mondo, e per nostalgia la possiamo anche chiamare icona femminista, ma la realtà è che è un gioco che, come sempre, inizia e finisce dove decidono gli uomini. Con Barbie come intermediaria, le bambine possono solo replicare la vita adulta delle madri, o una vita adulta per come vedono le donne nel loro presente, rappresentate dai media, oggi anche social. È un modello, tra l’altro, bisogna dirlo per onestà, che la maternità la esclude, a favore di una vita ultracapitalistica da Upper East Side. Quindi a un’occhiata più attenta, lo slogan di Mattel «You can be anything» ha parecchi asterischi attaccati. Io non so quali debbano essere i giochi delle bambine, ma sono con De Beauvoir nel pensare la salvezza fuori da quelle dannate case.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.