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Sentirsi sempre ridicoli e grandiosi

Dai dischi di Dylan tradotti sui foglietti al ciarpame young adult, fino ai più grandi, fino a Charles Dickens. Il lavoro del traduttore ha qualcosa di paranormale: nel brusio, sente una voce. E la gioia inenarrabile di scrivere

E poi ho sentito la voce.
Ma prima della voce devo raccontare il brusio, la serie ingarbugliata di stazioni radio sovrapposte, dozzinali, esilaranti che mi arrivavano dal testo. Dai testi. Ho tradotto un centinaio di libri. Sono lì a scaffale, senza connotazione speciale, senza altarini, mimetizzati in mezzo agli altri. Migliaia di parole altrui, pagine e pagine di paragrafi scritti da sconosciuti e riscritti da me fedelmente (quanto possibile), cento e passa libri: sono tanti? sono pochi? sono il giusto? Credo ormai di averne tradotti quasi quanto Luciano Bianciardi, ma lui alla mia età era già morto. E comunque Bianciardi è Bianciardi: fuori gara, fuori tempo, sempre un passo avanti e uno indietro, si uccide d’alcol e resta un contemporaneo del futuro. Non ho certo cominciato per emularlo, anche se avevo in casa una copia originale della Vita agra, appartenente a mio nonno. Allora come ho cominciato? Per caso, come sempre. Attraverso svariati gradi di conoscenze, andai da una celebre traduttrice per omaggiarla, anzi per dirle che le volevo bene, ma lei aveva frainteso e quando entrai da lei, pallido universitario con la barbetta che pensavo facesse Dostoevskij e invece faceva solo Frate Cionfoli, mi scrutò e disse: «E le poesie?» «Quali poesie?» «Non sei un poeta?».

Ammisi che non potevo vantare quel titolo. Scocciata, mi fece sedere e mi chiese che ci facevo lì. «Volevo solo manifestarle la mia ammirazione». Che coglione, avrà pensato. Era abituata a ricevere eterni questuanti e a elargire raccomandazioni, così dopo una chiacchierata sbottò: «Che ti piacerebbe fare?». Il vuoto (che non è un trattato sugli esistenzialisti, ma sulla mente di un universitario). Mi ricordai che da ragazzino traducevo i testi di Bob Dylan. Era un mondo di non facile comprensione per chi è giovane oggi, perché – well, well – non esisteva questa cosa che è la rete e che ormai è diventata il mondo. Un amico ti diceva che una canzone era fantastica e ti toccava comprare l’album (se lo trovavi), sperare che l’amico ce l’avesse per duplicarla, attaccarti alla radio, sperare in un concerto.

Oggi è semplicemente impossibile concepire il lasso di tempo che attesi per ascoltare, che ne so, Marquee Moon per la prima volta. O, appunto, la fatica di capire che cosa diceva il maledetto Dylan, con quella voce da animale notturno, ingarbugliando, bofonchiando, sputacchiando le parole. Mi mettevo accanto allo stereo dei miei, con una vecchia copia di Freewheelin’ sul piatto, provavo a trascrivere e poi a tradurre. Perché? Chi me lo faceva fare? Non ho idea. Mi piaceva l’inglese, mi piaceva capirci qualcosa, mi piaceva perfino trovare le parole in italiano. Fogliettini sparsi che fluttuavano per la mia cameretta, con i miei genitori sulla porta che mi guardavano preoccupati: «Perché non esce a drogarsi come tutti?». E la droga era già lì, anche se allora non lo capivo. Sarei diventato dipendente dalla gioia meschina di adagiarsi sulle parole altrui, di farle risuonare.

Ma a questo arriveremo. Nel frattempo, davanti all’illustre traduttrice (che Dylan l’aveva perfino conosciuto), mi tornarono in mente quei tentativi goffi. E così le dissi che mi sarebbe piaciuto tradurre. S’illuminò: finalmente poteva rendersi utile. Mi chiese di aiutarla ad alzarsi, la presi per mano e andammo alla scrivania. Disse che voleva chiamare un direttore editoriale. A casa sua risposero che era in montagna. Lei si fece dare il numero della montagna, lo compose e si girò di scatto verso di me: «E se sta scopando?». Allargai le braccia, incerto. Invece non stava scopando. Lei gli disse che aveva davanti un giovane di belle speranze eccetera eccetera. Mio malgrado, mi ritrovai una mattina di qualche giorno dopo nell’ufficio di un uomo arcigno che mi fissò con aria torva. «In questo lavoro non si stacca mai», disse. Ahah, pensai, manco fossi il Ceo di una multinazionale.

Oggi lavoro tutti i weekend, e se vado a fare una scampagnata, penso: Diavolo, avevo quella paginetta da risolvere. Cominciò così, mentre dovevo ancora scrivere la tesi, la mia fulminante carriera di correttore di bozze. Già, perché col cavolo che me la volevano dare una traduzione. Troppo giovane, troppo estraneo. E così, bozza dopo bozza, refuso su refuso, mi prese la tigna di ottenerla, anzi di ottenere per il momento una prova di traduzione. La prova di traduzione è un eufemismo per dire: Hai rotto, beccati ’ste due pagine, torna il più tardi possibile. Perché quando la ottieni, tu torni a casa gongolante, ti ci metti, traduci quel breve testo malissimo ma con tutta la cura del mondo, torni a consegnarla e non risenti l’editor per l’eternità. E se ti azzardi a dire “La mia prova di traduzione?” all’editor si rigirano gli occhi all’indietro e comincia a mormorare frasi sataniste in latino.

Continuai a correggere bozze, trovai altri lavori, feci un Master intensivo in cui traducevo dalle nove della mattina alle sette di sera insieme ad altre otto anime affini sotto la guida di quello che per certi versi sarebbe stato uno dei miei maestri. Uscito di lì, chiesi un’altra prova di traduzione, la feci, andai a rompere le scatole all’editor e lei: «In girum imus nocte et consumimur igni». Niente.

A quel punto cominciai a lavorare in libreria, ma ormai collaboravo con diversi editori e alla fine qualcuno decise di rischiare e, superata la prova di traduzione, mi affidò un testo per intero. Cominciò un’avventura fatta di libri mostruosi, mediocri, medi. Accettavo tutto. La traduzione è una palestra, un’officina, un mondo dove farsi i muscoli e, per cominciare, va bene qualsiasi cosa. Ma non era per niente facile. Il paradosso è che tradurre un libro brutto è più difficile che tradurne uno bello. Lo scrittore di talento o di mestiere, insomma che sa quello che sta facendo, è più lucido nelle intenzioni e così lo diventa anche il traduttore, se ha talento o mestiere. Niente è più infernale delle velleità. Niente ti fa annaspare più nella nebbia di uno scrittore che annaspa nella nebbia. Noi riproduciamo, pediniamo.

Ricordo che uno dei primi libri che feci raccontava la storia di una ragazza che per pagarsi il college decide di imparare la nobile professione della dominatrice e comincia a elargire palettate sui glutei dei vecchi. Detta così, appare perfino allettante come storia, e tuttavia lo stile non era all’altezza delle palettate, e tradurre quel libro fu come sottoporsi a una seduta di bdsm particolarmente efferata in cui la safeword era deadline. Da lì passai a: thriller in cui l’autore era convinto che per creare suspense bastasse chiudere i capitoli con una sensazione di minaccia nell’aria («Qualcuno la stava seguendo? Forse».); romanzoni politici ambientati in dittature esotiche dove il protagonista in carcere dialoga con una lucertola; young adult che volevano semplicemente far capire ai giovani lettori che l’anoressia può essere curata (tanto valeva scrivere un volantino). Fantasy dozzinali, gialli noiosi, inutili memoir. In un’occasione un editor mi chiese se non potevo migliorare un po’ lo stile dell’autore anglofono. Fu l’ultima volta che collaborammo. «Allora scrivo un romanzo mio» (era quello che stavo facendo). Eppure piano piano in tutto quel ciarpame cominciò a farsi strada qualche scrittore discreto, un’autrice interessante, un romanzo che non era per nulla male. Allora iniziai a starci bene nelle pagine, nonostante le fisiologiche difficoltà. Era bello ascoltare quelle voci e la loro vocazione. Ed era bello, come in una danza o in un incontro di boxe (a seconda dell’umore), assecondarne o sfidarne il talento. Mi divertii con i giochi di parole di Percival Everett, accettai un James M. Cain nella convinzione che fosse semplice e scoprii che un semplice movimento del braccio è descritto con una perfezione tale da risultare impercettibile agli occhi del lettore, mi arrivò il primo potenziale bestseller. Cento e passa libri. È difficile dire che cosa significhi stare così tanto nelle parole, e quindi nella mente, di una persona che nemmeno conosci. In generale significa entrare in rapporto profondo, per ore e ore, giorni e giorni, con un alfabeto alieno. Ascoltarlo. Percepirne il respiro. Adeguarsi. Scegliere. Fare errori. Perdersi. Ritrovare il filo rosso che ci aveva sospinto per pagine. Entrare in un’intimità provvisoria, lenta, meravigliosa. Chiudere pensando di avere fatto un buon lavoro e nel giro di qualche minuto pensare d’avere fatto un disastro. Aprire una vecchia traduzione e avere la stessa sensazione che si ha davanti a una vecchia foto in cui siamo ridicoli. Stancarsi, portare le pagine di là, lavorare di scapole, diventare bravi e poi scrivere a un’amica traduttrice per un dubbio che lei trova ridicolo, ricevere mail di traduttori di settant’anni che ti interpellano per un dubbio che tu trovi ridicolo. Sentirsi sempre ridicoli, perché la traduzione è gregariato, impermanenza. Sentirsi sempre grandiosi per gli stessi identici motivi. Volere bene a una persona che stai traducendo perché sa scrivere e ha fatto una cosa grandiosa e lì veramente senti pulsare il suo stile. E poi lavorare sui classici, sentire il passo di un estro ancora diverso: più profondo, più articolato, a volte più commovente.

Ed ecco le voci più belle. Il nitore morale di George Orwell, la grazia irraggiungibile di Francis Scott Fitzgerald, i funambolismi verbali di Anthony Burgess. E poi due vette dalle quali non sono più sceso. Charles Dickens: viandante, fratello, gioia inenarrabile di scrivere. Mi prendo la responsabilità di virare sul paranormale ma resto convinto, mentre traducevo una specifica scena del Circolo Pickwick ambientata in un cimitero, di avere sentito la sua voce. E poi Malcolm Lowry e uno dei capolavori del Novecento. Ma per raccontare che cosa è stato tradurre la voce insicura, gigantesca, biascicante di Malcolm non mi bastano le parole di un articolo. Per dire che cosa davvero è stato tradurre Sotto il vulcano, per sdebitarmi, ho dovuto scrivere un libro intero.

Marco Rossari (Milano, 1973) scrittore e traduttore. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Dickens, Mark Twain, Percival Everett, Dave Eggers, Alan Bennett, Hunter S. Thompson, John Niven, James M. Cain, Malcolm Lowry. Ha pubblicato, tra gli altri, il romanzo «Nel cuore della notte» (Einaudi, 2018) e il canzoniere «Le bambinacce» (Feltrinelli, 2019), scritto con Veronica Raimo. Il suo ultimo romanzo è «L’ombra del vulcano», che uscirà ad agosto per Einaudi.