Cerca

Sono io Il mio stesso essere

Emily Brontë fa a pezzi tutto ciò che sappiamo degli esseri umani con un gusto per la vita che trascende la realtà. Charlotte, la sorella geniale ma assennata, cerca di proteggerla definendola selvatica come le sue poesie. Ma non si può fermare una libertà che soffia come il vento

Charlotte Brontë, la più pragmatica delle tempestose sorelle Brontë, quella che forse ha abitato il mondo con maggiore successo, e che con cocciutaggine ha spinto sé stessa, Emily e Anna a pubblicare le loro poesie (autopubblicate, copie vendute: due. Recensioni: tre), ha ritenuto di difendere la sorella Emily, cioè l’autrice di Cime tempestose, dal suo stesso talento e dalla sua anima selvatica e visionaria, che qualcuno poteva scambiare per eccessiva libertà, date le condizioni di partenza. Data la femminilità, che Emily indossava con grande disinvoltura camminando da sola per la brughiera, o in compagnia del suo cane, facendosi sferzare dal vento che la colpiva con tanti aghi di gelo, anche nei giorni prima della fine, quando avrebbe dovuto soltanto stare seduta vicino al fuoco, e invece lei voleva sentire la comunione con la natura, il principale personaggio della sua immaginazione. Emily Brontë era così indifferente alle convenzioni sociali (un buon matrimonio, o almeno una brava istitutrice, o almeno una gentile dama di compagnia, o almeno una scrittura aggraziata e innocua) che tutti credettero a un primo sguardo a quello pseudonimo, Ellis Bell, con il quale firmò la prima edizione di Cime Tempestose. Quel libro così brutale, così selvaggio, così potente, non poteva che averlo scritto un uomo. Un uomo libero, forte, con grandi capacità argomentative e con la volontà di maneggiare insieme il bene e il male e di far anche comparire una certa violenza, molta vendetta, molta oscurità.

A un uomo così si potevano di certo perdonare, e anzi si dovevano ammirare l’intelligenza, la disubbidienza, quei desideri così liberi, quell’erotismo mai coniugale, ma a una ragazza no, per carità: la figlia del reverendo Brontë aveva ricevuto un’educazione non convenzionale, è vero, ma traduceva l’Eneide e non faceva pazzie. Il fratello Branwell aveva invece tutta la libertà del mondo, compresa quella di dissipare il talento e autodistruggersi.

A quei tempi la morte era sempre così vicina, così giovane, che non si faceva grande differenza fra alcolismo e tubercolosi. Ma insomma, il problema era Emily, anche dopo la morte di Emily. Emily muore due anni dopo avere pubblicato Cime tempestose con pseudonimo, muore dopo avere preso freddo al funerale del fratello, muore in tre mesi senza avere conosciuto il mondo ma avendo conosciuto a fondo la potenza della sua mente e della sua scrittura. Charlotte, la sorella assennata, scrive una prefazione alla nuova edizione di Cime tempestose (siamo nel 1850 in Inghilterra) in cui cerca di sottrarre a Emily la responsabilità del suo talento, e quindi la responsabilità di avere creato un personaggio terribile come Heathcliff, e di avere scritto un romanzo scabro, feroce, ardente, che disorientava la critica, in cui l’inferno e il paradiso si toccano. Charlotte scrive: «Se sia giusto o consigliabile creare cose come Heatchliff, non lo so: non credo proprio che lo sia». E dice che il talento di sua sorella va oltre la sua volontà, che lei era quasi inconsapevole di ciò che aveva scritto, creatura selvatica come le sue prime poesie, poco socievole, guidata dall’immaginazione e non dal ragionamento. Guidata da qualcuno che non era lei. Da chi, ci chiediamo oggi? Da un uomo quindi? Dall’uomo che risiedeva in lei di nascosto? Charlottë vuole tenere al riparo la sorella dalle critiche (una ragazza di buona famiglia che scrive cose tanto spaventose!) ma allo stesso tempo le toglie qualcosa. Le toglie consapevolezza, libertà, forza, la espone, proteggendola, a quel giudizio morale che avrebbe dovuto semplicemente respingere. Non è un rimprovero, ma è la considerazione della condizione di allora. Emily aveva scritto un romanzo che era già moderno, e che il Novecento avrebbe amato e celebrato, un romanzo che ancora oggi è perturbante e favoloso. Ma era ancora presto, e lei non era un uomo ma una ragazza cresciuta in canonica, una ragazza di campagna che giocava con i soldatini del fratello e indossava una maschera bianca per dire al padre le cose che altrimenti non gli avrebbe detto. Quanto è più rassicurante, allora, Jane Eyre, il romanzo di sua sorella Charlotte, in cui il bene trionfa e trionfa la devozione umile!

Stiamo parlando di ragazze geniali, stiamo parlando di un fenomeno editoriale eccezionale, stiamo però anche parlando di libertà.

La libertà che Emily Brontë si è presa nella scrittura, e forse anche nella vita perché il mondo che voleva era esattamente quello in cui viveva, è immensa. «È come se Emily Bronte fosse in grado di fare a pezzi tutto ciò che sappiamo degli esseri umani e riempire i vuoti che rimangono con un gusto per la vita che trascende la realtà. Riusciva a liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti, rivelando con pochi tocchi lo spirito di un volto, tanto che questo non necessita più di un corpo; quando parla della brughiera sentiamo il fruscio del vento e il rombo del tuono», ha scritto di lei Virginia Woolf, che considera Cime tempestose un capolavoro (anche se ha dovuto farsi gli schemi scritti dei personaggi per non confondersi).

La libertà di Emily, a metà dell’Ottocento, era troppa anche per sua sorella, che ha cercato di mettere la famiglia al riparo da quella tempesta di parole. E che chissà, forse, ha creduto che fosse troppo presto, o troppo strano, o troppo difficile da capire. Anche lei ha cercato di attutire il colpo di quella novità. Anche lei ha cercato di attutire il colpo di quella novità dirompente.

«Affascinati da una strana magia, leggiamo qualcosa che pure non ci piace, ci interessiamo a personaggi che offendono i nostri sentimenti e ci lasciamo dominare dall’immensa forza del libro», scrisse allora l’American Review, disorientata da questo Ellis Bell tanto scandaloso. Emily non ha nessuna voglia di rivelare la sua identità, di dire: eccomi, ma sta per ammalarsi, e sta per ribellarsi anche alla malattia, andandosene in giro per la brughiera senza forze e senza respiro. Penso a lei, a sua sorella con i piedi per terra, a quella famiglia piena di talento e di unione in nome dell’immaginazione. Allora, quando Catherine dice a Nelly, la domestica materna: «Nelly, io sono Heatchliff, lui è il mio stesso essere», mi sembra adesso di sentire Emily che dice: «Charlotte, io sono io».