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Sotto tutti quei corpi di ragazze schiacciate

La notte di Halloween, le orecchie da gatto, la festa, i gomiti alti e poi la tragedia nel vicolo troppo affollato: sono morte soprattutto giovani donne. Sregolata libertà, maschilismo e una piccola madre che distrugge disperata le corone di fiori. Ma c’è chi dice: “Non è colpa vostra”

Quella sera Sujin aveva caricato su Instagram le foto e i video della festa di Halloween. La gente che si fa truccare da vampiro per strada, ragazze vestite da scolarette assassine, divise da Squid Game, zombie e galeotti, fantasmi e personaggi dei cartoni animati in chiave horror. A un certo punto della sera, tra i vicoli di Itaewon, il quartiere più libero e cosmopolita di Seul, aveva però capito che l’allegria della festa si stava trasformando. È un istinto, qualcosa che non si può spiegare a parole. C’è troppa gente, aveva detto alla sua amica, spostiamoci. A fatica, facendosi largo con i gomiti alti, spingendo altre persone vestite da zombie o con le orecchie da gatto, erano riuscite ad arrivare in fondo al vicolo, fino alla strada principale. Si erano voltate verso la metropolitana. Sujin aveva il telefono in mano, e aveva ricominciato a filmare una situazione del tutto diversa da quella di qualche ora prima, di qualche minuto prima. Avevano bevuto troppo, come tutti lì attorno, e Sujin ci aveva messo qualche minuto a capire. Il vociare sembrava lo stesso, i travestimenti erano gli stessi. Ma c’era tantissima gente a terra. Corpi uno sopra l’altro. Movimenti concitati, come se all’improvviso fossero finite davanti a un ospedale da campo. La strada era illuminata dai lampeggianti delle autoambulanze. “Il giorno dopo ho cancellato tutto”, dice Sujin: “Le foto della festa, le foto della tragedia. Tutto”.

Salendo in superficie dall’uscita numero uno della stazione di Itaewon, perfino oggi a quasi due mesi dall’incidente è impossibile non avvertire l’ombra cupa di una tragedia inspiegabile, insopportabile. Il vicolo dove sono morti in centocinquantotto, per lo più ventenni e trentenni, è ancora chiuso e controllato dalla polizia. Una marea umana si è mossa e centinaia di persone sono rimaste schiacciate lì, in quella stradina lunga 41 metri e larga nemmeno quattro, senza poter andare né su né giù, con le uscite del vicolo bloccate da un muro umano, sopra e sotto. Tutt’intorno alla stazione è una distesa infinita di bigliettini, fiori, ricordi, offerte. Il memoriale ha preso vita spontaneamente: oggi c’è un gazebo per i volontari che puliscono, sistemano i fiori, e proprio accanto all’ingresso del vicolo le vetrine di due catene di cosmetici molto popolari sono state coperte da pannelli bianchi. Davanti adesso c’è un altare costantemente presidiato da un monaco buddista. È una scena impossibile da ignorare. Qualcuno si ferma in silenzio di fronte al vicolo, chi con le mani giunte e la testa piegata, e dice una preghiera inchinandosi alla fine, com’è uso nel buddismo. C’è chi scrive su un post-it e lo lascia attaccato alla ringhiera. Ci sono le fotografie dei ragazzi accanto a qualche bottiglietta di soju, l’alcolico sudcoreano più popolare, e tra le arance e gli snack e i fiori – decine di fiori – anche le fotografie delle ragazze, non solo coreane. Perché a morire quella sera a Itaewon sono state soprattutto giovani donne: centodue su centocinquantotto. I medici hanno poi spiegato che le donne hanno una struttura fisica più fragile, che non ha retto alla pressione della folla. Tra i fiori qualcuno ha lasciato un libro di Annie Ernaux, e in un altro punto c’è un messaggio: “Non è colpa vostra”.

La colpa, appunto. Le prime telefonate alla polizia erano arrivate intorno alle sei e mezzo di pomeriggio. Il primo a chiamare aveva detto agli agenti: “Sembra che la gente stia per morire schiacciata. Io stesso ne sono uscito per un pelo. Ci sono troppe persone qui, dovete mandare qualcuno a controllare la folla”. Un’ora dopo, un’altra telefonata: “E’ un collo di bottiglia qui. Un caos totale. Le persone che si accalcano, stanno cadendo e si stanno facendo male. Dovreste fare qualcosa”. Alla fine ne sono arrivate undici, di telefonate alla polizia. Man mano che passavano le ore, le voci erano sempre più preoccupate.

Itaewon è il quartiere più internazionale di Seul, la capitale della Corea del sud e di quella che viene chiamata la Korean wave, l’ondata di coolness coreana. Nasce attorno al quartier generale delle truppe americane durante la guerra di Corea, e negli anni si trasforma nel luogo simbolo dell’intrattenimento, della vita notturna – un piccolo quartiere di libertà dentro a una gigantesca metropoli dove le regole sociali, soprattutto di giorno, attecchiscono di più di quelle giuridiche. Ce ne sono altri di quartieri simili, a Seul, nella zona universitaria di Hongdae, tra le vie più ricche di Gangnam, ma niente è come Itaewon, anche per la sua struttura. Una via principale e da un lato e dall’altro un dedalo di vicoli e viuzze strette, tutto un saliscendi pieno di locali a tema, alla moda, frequentati da Millennial parlanti decine di lingue diverse, da diplomatici e spie, da giornalisti e designer, studenti e professionisti. Proprio per questo nella società iperconservatrice sudcoreana è considerato il quartiere troublemaker, quello che porta i problemi. All’inizio della pandemia, i gay bar e i club con drag show di Itaewon erano stati accusati di aver diffuso il virus nella capitale. Sembrava una scusa perfetta per il governo locale, guidato dal populista Oh Se-hoon, per andare avanti con il suo piano di rendere sempre meno cool Itaewon, spostare la base militare americana e gli stranieri, e infine trasformarlo in un quartiere residenziale come tanti per far fronte all’enorme problema abitativo di Seul. Oggi attorno al vicolo della tragedia anche i locali più famosi, come lo storico Fat Albert’s dove si riunivano gli expat, i ristoranti etnici e le birrerie, sono tutti chiusi: nessuno ha voglia di uscire la sera per divertirsi, da quelle parti.

“A hundred thousand people”, centomila persone. Sujin ripete il numero come se dovesse tenerlo a mente per capirne la grandezza. La sera del 29 ottobre c’erano centomila persone a festeggiare Halloween a Itaewon, a fronte di soltanto centotrentasette poliziotti. Chiunque frequenti le metropoli d’Asia si sarà trovato almeno una volta in una situazione simile in metropolitana, in un mercato notturno, in uno spazio stretto dove decine di persone ammassate si muovono e spingono. Il governo sudcoreano sapeva perfettamente che centotrentasette poliziotti non avrebbero potuto controllare la folla festosa di centinaia di migliaia di giovani che per la prima volta, dopo due anni di pandemia, potevano liberamente uscire, bere, ridere, baciarsi, divertirsi con la scusa di Halloween. Dando le spalle al vicolo della morte, la stazione di polizia di Itaewon è esattamente dall’altra parte della strada.

La ricerca delle responsabilità, in una tragedia come questa, si trasforma in un’ossessione quasi comprensibile. “Non è colpa vostra”, dice l’uomo che parla dal palco montato per ricordare i morti di Itaewon. Il sabato, ogni settimana, una folla si riunisce a piazza Gwanghwamun per chiedere al governo risposte su quei morti che sono fratelli, figli, amici, sconosciuti da non dimenticare. È qualcosa che la città di Seul ha già vissuto: nel 2014 il traghetto Sewol s’inabissò in circostanze mai chiarite dopo essere salpato dal porto di Incheon. A bordo c’erano soprattutto ragazzini di una scuola che andavano in gita. Morirono in trecento. Le proteste che ne seguirono, l’attivismo di chi cercava la “verità per il Sewol”, furono fondamentali per costruire un movimento che portò all’impeachment dell’allora presidente Park Geun-hye. È anche per questo che sin dai primi momenti dopo la tragedia di Itaewon il presidente conservatore e populista Yoon Suk-yeol è stato molto attento nello studiare la propria reazione. Si è fatto vedere subito pronto, nella situation room, e il giorno dopo ha dichiarato una settimana di lutto nazionale. Ma per l’uomo che un anno fa aveva infiammato la campagna presidenziale con una retorica maschilista e muscolare, e aveva dato la colpa al femminismo per il basso tasso di natalità della Corea del sud, non è un’impresa facile. Anche perché i primi a saltare sono stati i ruoli più bassi della catena di comando: nessun ministro né funzionario del governo si è dimesso. A metà novembre, però, due funzionari di polizia che erano stati indagati si sono suicidati.

L’indagine giudiziaria si sovrappone a uno choc collettivo che è legato a un livello più intimo della società sudcoreana. Halloween non fa parte della tradizione, e solo di recente a Seul come a Tokyo il fine settimana che precede la festa dei morti è diventato un’occasione di festa, di gioco infantile, di travestimenti. Le potenti lobby religiose sudcoreane non hanno gradito questa trasformazione. I gruppi di estremisti cristiani, culti e sette spuntano a turno dalla stazione di Itaewon e si prendono il loro spazio per fare discorsi che si somigliano tutti e il cui significato è più o meno: se non vi foste abbandonati a una festa da miscredenti, non sareste morti. Se non aveste bevuto, se non vi foste attardate, se non aveste compiuto atti impuri o attività lascive e non adatte a una femmina, non sareste morte. La colpevolizzazione della vittima è una tendenza più sottile in occidente, ma in Corea del sud, dove esistono programmi tv per prendere in giro in diretta adolescenti che rimangono incinte di uomini quasi sempre molto più grandi di loro (esiste davvero, si chiama Goding Umpa) è ancora più esplicita e inquietante. Il cosiddetto maestro Chungong (pseudonimo di Lee Byungcheol) è uno sciamano molto popolare in Corea del sud perché pare curi il cancro con le mani e perché è molto vicino al presidente. Dopo la strage di Itaewon, il santone ha detto che quello dei ragazzi è stato “un sacrificio” che andrebbe visto piuttosto come “un’opportunità”, visto che ora gli occhi del mondo sono puntati sulla Corea. È per questo che sempre più spesso, sui muri in giro per Seul, nei discorsi alle manifestazioni di protesta, si sente dire: “Non è colpa vostra”.

Dentro a questo dolore collettivo c’è anche la frustrazione e la rabbia delle madri dei giovani morti la sera di Halloween. Oltre a quello spontaneo di Itaewon, il governo aveva fatto costruire un memoriale per le vittime davanti al municipio di Seul, in pieno centro: doveva essere quello più istituzionale, delle photo opportunity. È stato chiuso qualche settimana fa. Era diventato il simbolo dell’inazione della politica, della sua incapacità di assumersi le responsabilità, dopo che la madre di una delle vittime è entrata nella zona dell’altare e ha iniziato a distruggere le corone di fiori che portavano il nome del presidente. È uno dei video più drammatici di questa tragedia: si vedono quattro uomini che tentano di fermare questa piccola donna disperata che urla al presidente e ai poliziotti di non aver fatto niente “per proteggere il mio bambino”.

In un paese come la Corea del sud, una democrazia in cui la ferita dell’autoritarismo di quarant’anni fa è ancora viva, dove la società civile è attivissima e dove le istituzioni e la politica sono soprattutto un fatto di responsabilità, il disastro di Itaewon è una miccia che accende le recriminazioni di una parte della popolazione. Sono quelli che vogliono liberarsi da una società intrappolata nel maschilismo e nei privilegi. Sono quelli che continuano a dire ai ragazzi, ogni sabato: “Non è colpa vostra”. Sono quelli che pensano: forse la colpa è nostra.

Giulia Pompili (Roma, 1985), giornalista del Foglio. Ha una newsletter, “Katane”, e ha scritto per Mondadori «Sotto lo stesso cielo» (2021) e «Al cuore dell’Italia» (2022, con Valerio Valentini).