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Speranza contro speranza, grazie a speranza

Vita nascosta di Nadez˘da Mandel’s˘tam, che ha salvato l’opera di suo marito con la memoria e con le fughe, ma è stata molto più di una custode. “Dimenticate la mia presenza” era la strategia per resistere. Ha combattuto Stalin con il silenzio, ma adesso il silenzio non serve più

Che felicità era e come abbiamo sempre saputo che proprio quella era la felicità.

Nadez˘da Mandel’s˘tam, 1938

 

Così indifesa, così pericolosa, ha detto di sé Nadez˘da Mandel’s˘tam: è stata il grande amore, la moglie, infine la vedova di Osip Mandel’s˘tam, il più importante poeta russo del Novecento. Perseguitato arrestato e deportato per i suoi versi, quasi graziato la prima volta da Stalin in seguito a una telefonata di Boris Pasternak, morto la seconda volta in un gulag di cuore o di tifo – non si sa con certezza, ma si sa che aveva barattato il suo cappotto di pelle con un chilo e mezzo di zucchero che gli era stato immediatamente rubato. Morto a quasi quarantotto anni con i versi a memoria chiusi dentro la testa e con tutta l’arte, il dissenso e la libertà affidati alla moglie Nadez˘da, che in russo significa: speranza. Nadez˘da aveva otto anni meno di lui, era bella, colta, coraggiosa, allegra, perfino trionfante: si conobbero una sera a Kiev e finirono subito a letto insieme, si sposarono dopo tre anni, si tradirono a vicenda (“ho provato a essergli sleale, ma nessuno era bravo come lui”), litigarono (“avevamo ambedue caratteri difficili, ma la notte facevamo l’amore con grande successo”), si legarono l’un l’altro oltre la vita stessa e in questo senso si furono sempre fedeli. Senza di lei, lui avrebbe forse piegato la testa, avrebbe rinunciato alla poesia. Tutto quello che sappiamo e leggiamo di Mandel’s˘tam lo dobbiamo a sua moglie, che è stata custode e testimone della sua opera e della memoria di quegli anni terrificanti e che in nome del convincimento morale che si erano dati l’un l’altro ha deciso di raccontare tutta la verità. Si spostava, si nascondeva, si sradicava, portava con sé i quaderni, affidava i fogli agli amici veri, riconosceva i falsi amici mandati dalla polizia segreta e li depistava.

Dopo il secondo arresto di Osip, quando Nadez˘da faceva il turno di notte in una fabbrica tessile della cittadina di Strunino, si teneva sveglia borbottando i versi tra sé e sé: “Dovevo affidare tutto alla memoria, in caso mi avessero portato via i manoscritti, o le varie persone cui avevo dato le copie si fossero spaventate e le avessero bruciate in un momento di panico”. Ogni giorno ripeteva a memoria dei brani, sia la prosa sia i versi, ma dopo il 1956, scrive, iniziava a dimenticare. Usava un bauletto che le aveva regalato sua madre da ragazza, con tante etichette di alberghi europei. “Cominciai a gettarvi le carte di Osip, senza immaginare che stava nascendo l’archivio di uno scrittore”. Conosciamo tutti questo grande amore, l’ostinazione di Nadez˘da, il suo ruolo fondamentale nella resistenza allo stalinismo. “E’ la storia della mia lotta contro gli elementi scatenati, contro ciò che ha sfiorato con mano perfida anche me e i poveri brandelli di carta che dovevo custodire”. Ammiriamo il coraggio e la dedizione anche nell’occuparsi del temporaneo impazzimento del marito convinto che ogni giorno, alle sei in punto del pomeriggio, sarebbe entrato in ospedale il plotone d’esecuzione per fucilarlo (Nadez˘da cambiò l’ora dell’orologio), ma senza capire chi è stata davvero Nadez˘da Mandel’s˘tam: uso il suo cognome da sposata perché per quel cognome lei ha fatto di tutto e in quel cognome si è compiuta la sua volontà.

Ora che la casa editrice Settecolori ha ripubblicato, dopo cinquant’anni, il primo volume delle sue memorie (Speranza contro speranza, tradotto da Giorgio Kraiski, con l’introduzione del premio Nobel Seamus Heaney, a cui seguirà, il prossimo maggio Speranza abbandonata), basta prendere in mano il libro e cominciare a leggere per rendersi conto di un’identità splendente, unica, fortissima. La cronaca letteraria di una persecuzione scritta con semplicità tragica, sense of humour e analisi pietosa della condizione umana: i coraggiosi e i vili (“In nome di quale idea si dovevano avviare verso l’Estremo Oriente treni carichi di deportati, tra cui c’era l’uomo che amavo?”). Una vita di donna per la quale l’oggetto della memoria è il marito e la sua opera, ma che per quanto provi a nascondersi non riesce a sminuire la propria forza. Anche se non prova mai il minimo desiderio di mettersi in mostra, anche se il libro è sul marito, il punto di vista è sempre e soltanto il suo. Il pensiero è il suo, distinto da quello di Pasternak, distinto da quello di Mandel’s˘tam. Un pensiero che va altrove e che mostra con amarezza il dovere di autocontrollo durante il regime: se tu, madre, scoppi in lacrime alla notizia dell’arresto di tuo figlio, lo metti in pericolo. Devi continuare a lavorare e a sorridere, non devi venire meno al codice di decoro sovietico. “Per Mandel’s˘tam questo decoro sembrava non esistere. Egli era totalmente privo di autocontrollo: scherzava, gridava, tempestava di pugni le porte chiuse, andava su tutte le furie e non cessava di meravigliarsi per quanto avveniva davanti ai suoi occhi fino all’ultimo minuto della sua vita”.

Lei racconta da dentro la privazione di libertà, si ribella e si adatta, restando inflessibile, diventando nomade, osservando lo sconvolgimento provocato dalla morte di Stalin, la difficoltà di comprenderne il significato per un paese che ha ormai il terrore di pensare con la propria testa. Molti anni dopo, nel 1965, ci fu un omaggio a Mandel’s˘tam all’Università di Mosca. Molti studenti e in cattedra vecchi amici e scrittori importanti, studiosi. A un certo punto qualcuno ringrazia Nadez˘da e dice che si trova nel pubblico. “E’ andata in esilio con lui, ha salvato tutte le sue poesie. Non posso immaginare la vita del poeta senza di lei…”. Allora tutta l’aula si alza in piedi, applaudendo. Applaudono per molto tempo, finché si alza anche Nadez˘da e l’intera sala ammutolisce. Dice: “Mandel’s˘tam ha scritto: ‘Non sono ancora abituato ai panegirici…’. Dimenticate la mia presenza. Grazie”. E si siede di nuovo, mentre gli applausi ricominciano. Ma ogni volta che qualcuno diceva qualcosa che riteneva sbagliato mormorava: “Balle!”.

Ecco: “Dimenticate la mia presenza” non è più una richiesta accettabile. Nadez˘da è stata una presenza gigantesca, non solo umana, amorosa, morale, non solo di sostegno a un grande poeta, ma letterariamente paragonabile a Grossman, a Solz˘enicyn. Forse la sua vocazione primaria non era la letteratura come strumento, ma la letteratura dentro la vita, l’umanità dentro l’intelligenza umana. Ha scritto, riferendosi alla notte del primo arresto: “Di me personalmente non si occupavano in modo particolare: quasi non ero considerata degna di sorveglianza individuale. Intorno a me ronzavano generalmente non agenti, ma volgari delatori”. Una donna, la musa (così la descrisse Anna Achmatova), un passo indietro, scarso interesse, un’ancella. Personaggio secondario, non protagonista.

La polizia gettava a terra i fogli di suo marito e lei cercava di non farglieli calpestare. Rispondeva: “Non lo so” a tutte le domande. La notte del primo arresto nell’appartamento devastato c’era anche Anna Achmatova, arrivata in treno per stare, coraggiosamente, con gli amici caduti in disgrazia. In suo onore Mandel’s˘tam aveva chiesto ai vicini di casa un uovo in prestito, per cena. Durante la perquisizione l’uovo giaceva sul tavolo, finché Anna disse a Mandel’s˘tam che prima di essere portato via doveva mangiare qualcosa, e gli tese l’uovo. “Egli accettò, si sedette a tavola, condì l’uovo con un pizzico di sale e lo mangiò”. Alle sette del mattino portarono via Mandel’s˘tam, nell’appartamento vuoto restarono Anna Achmatova e Nadez˘da Mandel’s˘tam. “Non andammo a letto e l’idea di farci il tè non ci passò neanche per la testa. Aspettavamo il momento in cui saremmo potute uscire di casa senza dare nell’occhio. Perché? Dove? Da chi? La vita continuava… Probabilmente, somigliavamo a due annegate. Dio mi perdoni questa reminescenza letteraria: allora, non pensavamo certo alla letteratura”. Restarono loro due, una di fronte all’altra: personaggi principali, per fortuna ancora quasi invisibili. “Dimenticate la mia presenza” è stata una strategia per resistere, “altrimenti si finisce male”, scrive Nadez˘da. È finita comunque male, così adesso e per sempre cambiamo strategia.