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Stasera sono una rockstar

Dentro la disperazione di essere adolescente mentre canta Marco Masini, sono arrivati gli Oasis a salvarci il desiderio: non serve essere seri per essere incazzati. Sperare che tornino insieme è sperare che la Gran Bretagna torni a ispirarci a essere molto più liberi e molto più rock. Viva la strafottenza cool

La mia amica Ilaria, che di musica ne sa più di me, dice che Masini ha fatto anche cose buone, ma io, che di musica non so niente, non credo che dalla penna di uno che concepisce Bella Stronza, l’inno degli odiatori di donne united, possa nascere qualcosa di buono se non come danno collaterale.

Non mi potete accusare di cancel culture, di femminismo woke: ai tempi di Bella Stronza, di Non Amarmi, ero bambina, nata in una famiglia normalmente maschilista, quel sano maschilismo di prima che ci venissero grilli per la testa di stare a pensare al linguaggio. Eppure sentivo che in tutti quei testi c’era qualcosa di sbagliato. Della musica italiana detesto i testi patetici in cui le donne soffrono sempre, o sono belle stronze. Detesto i gorgheggi, i duetti, quell’amarsi male e l’augurarsi peggio (soffrire sempre, soffrire male). Non era un giudizio morale, più una cosa come “ma perché devo sentire ‘sta roba? Ma in che senso tenerti a gambe aperte? Ma perché non te ne vai affanculo?” (sì, a sette anni pensavo già così: ho un’aggressività innata che se fossi nata maschio sarei stata un manager di successo – o un bullo di periferia). Ma non voglio isolare il povero Masini: la musica italiana la odio tutta senza discriminazioni, dall’inizio alla fine, quando non la odio la trovo solo vecchia e petulante. Puntualmente salta fuori, alle feste, la playlist nostalgica, e io la canto, la odio al punto di piangere, piango di pena per me stessa e per tutti noi che siamo dovuti crescere così.

Sono una ragazza di quattordici anni a Milano nel 1998, di musica non so niente, non ho un fratello non ho un amico, e per aggiungere al danno la beffa faccio il liceo classico, quindi devo stare buona, non capire niente ma in silenzio, prendere il tram, tornare a casa presto per i compiti, cioè devo tassativamente non farli, rimandarli fino al limite estremo, le sette le otto di sera, dopo cena, fare tardi, avere la gastrite. Freudianamente lascio i vocabolari di greco sul tram (tre), mi sgridano ma neanche troppo, del resto una vita diversa non la si concepisce, ti fanno credere che non c’è altro. Sei solo una ragazza. La cosa più distruttiva che puoi fare è piangere, o diventare anoressica. Qualcuna si tagliava. La cosa grave è che te lo fanno credere anche adulti che devono per forza sapere che c’è altro (lo sanno? quelle professoresse che vivono in via Quadronno col marito primario sanno che c’è vita fuori dalla sala professori e dal Cotidie Vertere?).

È tutto un mondo di rigore maschile imposto a una platea femminile, come in collegio: siamo tutte femmine tranne tre, io mi vesto da maschio con la giacca e i mocassini e a un certo punto mi cambio nome in una versione più neutra, ma nessuno mi segue e torno a essere Raffaella. È tutto molto grigio, polveroso confuso, ma a un certo punto entra Ilaria, che come me era già stata a Londra. Mi dice: Oasis. Parte l’intro di Rock and Roll Star e di botto la mia vita cambia.

No.

Ci siamo scambiate mille vocali in questi giorni, ha detto che non è andata proprio così, ma come dicevo ho rimosso: mi ha fatto delle rivelazioni sorprendenti del tipo che siamo state molto vicine a Liam Gallagher,

«abbastanza da sentire che puzzava». Io non lo ricordo. Forse perché «hai barattato la nostra acqua per due tiri di canna in coda al Forum». Ma pensa. Non ricordo.

Spero quindi di averlo chiarito: non ho nessuna nostalgia. Della mia vita da giovanissima mi fa schifo tutto, non ho un ricordo che sia uno che mi faccia dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Anche la “chiamata” di Ilaria, il suo walkman, Definitely Maybe, il concerto al Forum quando non c’era ancora la metropolitana ad Assago: non mi hanno svoltato l’esistenza. Però. In un certo senso gli Oasis sì, me l’hanno svoltata, l’esistenza. Mi hanno aperto una finestra su tutta una cosa che stava succedendo altrove, che avevo sentito in Inghilterra ma che non avevo gli strumenti per collegare alla mia vita.

Ho studiato un po’ di pianoforte da bambina, a casa di una signora che, si diceva, aveva suonato per la Rai. Odiavo tutto di quella vecchia casa: l’ascensore che si apriva sul pianerottolo giallognolo, il corridoio stretto che portava alla stanza del pianoforte, l’odore di vecchio, il suono della mia voce al solfeggio e gli esercizi stentati.

I maligni diranno che di musica non so niente nemmeno ora, da adulta, ma di una cosa so quasi tutto: degli Oasis, la band nata a Manchester nel 1991, dei fratelli Gallagher, della musica da cui, dicevano, avevano copiato. Di tutta quella fase della musica fatta da giovani maschi inglesi incazzati con cui mi sembrava di avere qualcosa in comune: si sentivano ai margini di qualcosa ma destinati a cose grandi; non avevano la motivazione per alzarsi e andare a lavorare (o fare i compiti, nel mio caso), ma una grande energia e sentimenti indecifrabili, che si traducevano in testi carichi di desiderio (di libertà, di bellezza).

C’era un senso di rivalsa, quello che hai quando nessuno ti ascolta, o meglio: quello che hai quando nessuno ti ha mai ascoltato. Spesso non cantavano neanche d’amore: di sicuro, non volevano uccidere le ragazze.

Era più una cosa come “ora non so nel dettaglio cosa farò della mia vita, ma so che ho da dire qualcosa e un giorno mi ascolterete, anzi facciamo finta che quel giorno sia già qui: stasera sono una rockstar”. Anch’io mi sentivo fuori posto, e sentivo che non era solo una questione di età, di adolescenza, ma qualcosa di più profondo, che sarebbe sempre stato vero per me.

Microfono dieci centimetri più in alto della bocca, mani dietro alla schiena, dirà Liam molti anni dopo, della sua voce rovinata:

«Un concerto non è il posto per il bel canto, per quello c’è il disco. Quando hai le chitarre dietro e la folla davanti a te, non è il tempo di cantare da angioletto e di usare quel… come si chiama, diaframma».

Liam e Noel sono, come sanno tutti, due fratelli di Manchester.

Case popolari, padre violento, le prende più Noel, che ha cinque anni più di Liam («Noel […] a bit of a stoner, a bit of a loner, somebody I would throw stones at»). Inizio anni 90: Noel, 24 anni, è quello che sa suonare la chitarra («l’avevamo in casa ma era più un’arma che uno strumento, nel senso che nostro padre ce la spaccava sulla schiena»). Ha un lavoro come roadie, cioè fa il facchino in tour di una band di cui ora non ci ricordiamo (Inspirational Carpet). Ma è il fratello Liam, 19 anni, a formare una band. Perché quasi tutti, in Inghilterra, a un certo punto sono in una band, ma anche perché a diciassette anni si è preso una martellata in testa da un bullo della scuola rivale, e da allora ha avuto una specie di epifania: scopre la musica, che il fratello con cui condivideva la stanza ascoltava e suonava da sempre. Quando Noel telefona a casa: «Dov’è Liam?». «Oh, a provare». «Si è unito a una compagnia teatrale?». «No, è in una band».

La loro storia inizia a Manchester, in alcuni luoghi familiari come il soggiorno ritratto dal fotografo Michael Spencer Jones per la copertina del primo album, Definitely Maybe, del 1994. In quel periodo di grunge cupo e pervasivo, questo è un album rivoluzionario perché ha una vitalità, un’energia che è quasi ottimismo (Live Forever). Il tempo verbale: il futuro. Oppure presente, ma imperativo. Anche nelle canzoni in chiave minore (The Masterplan, 1995): dance if you wanna dance, please brother take a chance. Poi, naturalmente, c’è la coolness. Di solito chi è cool ha una certa inconsapevolezza di sé, o prepotenza, o follia. Forse semplice rilassatezza. Liam è cool. Noel no. Ma Noel è tormentato, che in alcuni casi vale anche di più. Non si può essere cool e tormentati insieme («pagherei per saper portare un parka come Liam, e sono sicuro che lui pagherebbe per avere il mio talento di scrittura»). Infatti Noel è un autore, Liam un frontman carismatico. Il tormento non rende un granché davanti al pubblico, e i concerti di Noel solista sono un po’ deludenti, tranne quelli acustici, intimi, dove canta le canzoni che ha scritto proprio come le ha scritte, senza urlare, e a tal proposito vi consiglio l’MTv Unplugged 1997, in cui Liam non c’è perché ha il mal di gola, ma in realtà non c’è perché fa i capricci, non vuole stare da parte a suonare il tamburello mentre il fratello canta in versione acustica. Era un tempo in cui il valore non stava nell’essere vicino alla gente, e i reali non indossavano orribili vesti a fiori di Marks & Spencer. Il distacco, il fregarsene, da Kate Moss agli Oasis, dire qualsiasi cosa passasse per la testa, fare cose scorrette senza nascondersi e senza chiedere scusa era parte dello spirito del tempo. Oggi, né coolness né tormento: solo vicinanza, è importante immedesimarsi negli idoli.

Adesso tutti bravi a dire che gli Oasis hanno colto lo zeitgeist. Anche da noi, che non li hanno mai capiti. I concerti degli Oasis, e poi dei Gallagher, in Uk sono un lads fest, un ritrovo di maschi che si gasano in gruppi, ma da noi gli Oasis erano roba per femmine, perché si sentivano solo le melodie, alcune ballate anche orecchiabili (che ai veri maschi non devono piacere). Ma non capivano le parole, per ovvi motivi, e quindi non capivano la musica. Il contrasto fra l’incazzatura delle parole e la relativa orecchiabilità dei brani è anche una delle caratteristiche di Cool Britannia, e dell’Inghilterra attraverso i decenni: non c’è bisogno di essere così seri per essere incazzati. Non c’è bisogno di essere tristi per essere radicali. Infatti hanno (qualche secolo prima) inventato il romanzo, che è una forma di intrattenimento pop eppure è stato un contenitore perfetto per i peggiori tormenti.

Adesso tutti bravi. Ma allora, cosa stava succedendo? Lo zeitgeist a quel tempo era un movimento verso il futuro. Noel e Liam sono nati in una casa col bagno esterno.

«It’s grim up north and all that». Però non avevano voglia di portare l’anarchia in the UK, anche perché il governo Thatcher era finito (nel 1990; sarebbe nel 1997 passato ai Labour di Tony Blair) e la monarchia stessa era piuttosto cool, con quella grande icona rock che era Lady D. Non avevano voglia nemmeno di emanciparsi facendo gli A-levels, perché c’è sempre un certo entitlement nell’essere britannici, anche se working class: le cose verranno a me. E poi entrambi si vedono in galera piuttosto che in un lavoro normale: uno è iperattivo e problematico, l’altro è letargico e problematico. Noel lascia la scuola a 15 anni (ma se ti arrestano tre volte vuol dire che non hai proprio una vita di crimine davanti a te), Liam viene espulso alla stessa età. Fanno svogliatamente lavori anche pesanti, sempre per breve tempo (Liam: «Ero cool anche mentre scavavo buchi per tutta Manchester coperto di merda e in salopette»: gli crediamo) e poi vengono licenziati, ma prendono la disoccupazione.

I ragazzi delle council estates li avevo già conosciuti. La prima volta che sono andata in Inghilterra io avevo 12 anni. Quasi subito ho cominciato a girare con i ragazzi della zona, che erano sempre tamarri, perché non è che mi mandavano a stare a Knightsbridge o a Chelsea. Più tipo il parcheggio del McDonald’s di quelle periferie londinesi tipo Catford. Andavo a casa di questi ragazzi, fumavamo, mi incantavano. Mi ero infiltrata, ma soprattutto l’Inghilterra era entrata nelle mie vene, alla fine quando qualcosa si infiltra così presto non è che poi esce del tutto. Mi piace pensare che è per questo che ho capito gli Oasis, e continuo a capirli anche quando i miei sciocchi coetanei italiani, per prendermi in giro, iniziano a cantare stonati Wonderwall.

A metà degli anni 00, gli album avevano perso ispirazione. Quella stessa penna che buttava nei b-side capolavori come Stay young (1997) ha perso slancio, e anche il documentario Oasis: Supersonic (dai produttori di Amy, si trova a pagamento su Apple tv) sceglie di concentrarsi sull’ascesa della band fino al concerto di Knebworth, a cui hanno provato a partecipare due milioni e mezzo di persone. Ho finito l’università nel 2009, l’anno che si sono sciolti gli Oasis. Una pessima annata: gli stand vuoti delle job fair sono la mia personale immagine del crac finanziario, e di cos’era il Regno Unito alla fine dei noughties.

Dopo Brexit, mi sono disamorata del Regno Unito. E’ successo di botto il 23 giugno 2016, ma forse era già successo prima, quando ho deciso di tornare in Italia, e Londra più che un sogno sembrava la città cara sporca invivibile che è per noi che non siamo miliardari. Brexit però mi ha spezzato il cuore, quando è successo ho scritto uno di quei post accorati su Facebook da donna abbandonata (l’ho cancellato, infatti). Poco dopo è tornato Liam. Nel 2017 tira fuori il primo album solista, As you were, acclamato da critica e pubblico, mio personale Spotify n.1 di quell’anno e quello dopo, scritto talmente bene (da un gruppo di produttori e autori) che sembra degli Oasis, ma senza essere troppo malinconico. I testi esplicitano quello che negli Oasis era accennato, mostratoma-non-detto, autoriale e imperfetto. I critici dicono che è la cosa migliore uscita da entrambi i Gallagher post Oasis. Io non credo, ma il successo del ritorno di Liam è legato di nuovo allo spirito del tempo. Rivogliamo un po’ di quella strafottenza, che non era corretta ma era autentica. Forse, abbiamo scoperto che nessun artista è davvero scindibile dalla sua personalità, e siamo terribilmente annoiati da questi idoli cauti.

Nel frattempo loro non si parlano più. Alla fine la chitarra se la sono spaccata in testa fra di loro (Liam a Noel), prima di un concerto a Parigi. Noel ha detto in conferenza stampa che non riusciva a sostenere Liam un minuto di più. Singolarmente parlano un sacco: Liam su Twitter (c’è anche un account che traduce i suoi tweet in inglese comprensibile), dove a parole è sempre pronto a riabbracciare il fratello. Noel è brillante e ironico pieno di opinioni problematiche che rendono al meglio a mezzo video o radio.

Nel podcast Il Regno Unito si è già stancato di Brexit (Il Post) e poi sulle pagine del Foglio, Paola Peduzzi collega Oasis e Brexit. Perché c’è uno sguardo collettivo sugli Oasis in questo momento. La speranza che gli Oasis si riuniscano (non lo faranno) è anche la speranza che la Gran Bretagna torni com’era: un posto dove succedono le cose, e che ha cose da insegnarci sulla contemporaneità. Tra il litigio dei fratelli Gallagher e la Brexit c’è un filo, che è una perdita più che un nuovo inizio. Lo hanno capito in Uk, dove timidamente i Labour ricominciano a vincere nelle elezioni locali; dove perfino Sunak (quello di «Stop the boats») opta per una Brexit done più conciliante. Ma lo sappiamo anche noi, da quest’altra parte. Quello che ci manca non sono i tempi passati, ma una Gran Bretagna culturalmente rilevante, che sappia di nuovo ispirarci a essere più liberi, impertinenti e rock. Ci manca un’alterità in Europa, ma forse ci manca proprio un’alterità culturale tout court, una vera alternativa a un pensiero sempre più uguale e ribattuto all’infinito.

They’re making you feel so ashamed
Making you taking the blame
Making you cold in the night
Making you question your heart and your soul
And I think that it’s not quite right
Hey, stay young and invincible.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.