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Sveglia bambole, non siamo simboli

La donna come persona, con la sua volontà e interiorità, è sparita dal dibattito culturale. Perse in ideali teorici, siamo diventate concetti: è un trucco dei conservatori, alla Roe v. Wade, ma ci sono cascati anche i liberal. L’aborto non è una tennista vestita di bianco

La quarta ondata di femminismo, che ha avuto il suo picco col movimento MeToo, si è sgonfiata col botto, con la revoca di Roe v. Wade, che manteneva l’aborto legale in America a livello federale. Questo dell’aborto è certamente anche un contraccolpo culturale rispetto ai diritti e al potere acquisiti dalle donne negli ultimi anni. La percezione di un elitismo distaccato della woke culture – una cultura in cui questioni che riguardano la vita concreta delle persone sono diventate oggetto di dibattiti iper-intellettuali – ha foraggiato il contraccolpo, che poi certi politici hanno presentato in chiave populista parlando di popolo contro le élite. Ma questo è anche un errore dei “buoni”, e cioè dei progressisti.

Pochi si sono accorti che è da circa trent’anni che si lavora incessantemente a dimenticare quello che si è conquistato negli anni ’70; il femminismo è diventato strumento di tutto, dalle famose magliette alla vendita di filosofia in pillole, ma parla sempre meno delle questioni che coinvolgono la maggioranza delle donne; parla poco di maternità, e di conseguenza di aborto nella sua esperienza concreta. Non sembrerebbe a guardarlo oggi, ma il femminismo dovrebbe servire a migliorare la vita e la condizione delle donne in carne e ossa, non a fare compendi di dogmi in Instagram slide. E invece, da movimento sociale, è diventato poco più che una branca della filosofia, una filosofia pop che ripete sempre le stesse cose (l’algoritmo dei social premia la ripetizione). Ma non tutto è un simbolo, o un principio. Alcune cose sono carne e materia. Poche sono più materiali della questione del diritto all’aborto. La negazione o l’inaccessibilità dell’aborto ci regredisce a “schiave della specie”, nelle parole di Simone de Beauvoir, e certamente ci rende più controllabili dagli uomini. In questo femminismo universale in stile Freeda, ci siamo dimenticate la nostra stessa vulnerabilità nel mondo degli uomini; ci siamo dimenticate di noi.

Da donne, siamo diventate concetti. Emblematica in proposito è stata, nel 2021, la scelta del Centro Nazionale del Cinema francese, che invece di candidare all’Oscar L’Événement, il film tratto dal libro di Annie Ernaux che racconta di una ragazza in carne e ossa che si trova a dover abortire illegalmente nella civilissima Francia del 1963, ha candidato il body-horror Titane, un film tutto concettuale su una ragazza che uccide gente e si accoppia con una macchina, per poi diventare un ragazzo che perde olio motore e dà alla luce questa creatura ibrida. Da cinefila ho apprezzato Titane, ma ho anche pensato, ma di cosa stiamo parlando? È proprio questo il punto: abbiamo perso le vere ragioni per cui siamo incazzate, che sono concrete, spicciole perfino, e sono proprio queste faccende concrete e spicciole a renderci persone piuttosto che ideali facilmente strumentalizzabili dalla politica.

I repubblicani sono potuti diventare unanimemente antiabortisti (non lo erano in principio e non lo sono stati fino a poco fa, come spiega bene il documentario Reversing Roe, su Netflix) solo perché la questione dell’aborto ha lasciato il corpo delle donne ed è diventata ideale. Il che equivale a dire che la donna da carne si è fatta spirito, un problema vecchio almeno quanto la trinità, che nella triade materiale di madre, padre, figlio, al posto della madre mette un immateriale spirito santo, come scrive Chiara Bottici in Manifesto anarca-femminista (Laterza). La donna come persona, con le sue scelte, volontà e interiorità, è sparita. Cancellata, anche nel dibattito progressista, da ideali sempre più astratti, tutti giusti, ma che riguardavano cose sempre un po’ più teoriche, sempre un po’ più lontano da noi. Rendere la donna un’idea è da sempre un trucco dei conservatori, ma ci sono cascati anche i liberal.

La politica non è più incentrata sulle dinamiche socioeconomiche tradizionali di destra e sinistra ma è oggi identity politic, e la spaccatura destra-sinistra si interseca a quella di “culturally liberal” contro “culturally conservative”. Questa identity politic non ha tanto a che fare con chi siamo, quanto con chi vorremmo essere e con le etichette (astratte) che ci piace apporre alla nostra persona, per far parte di un gruppo da cui vogliamo sentirci accolti. È un sistema politico e culturale che pretende che abbracciamo un intero sistema di valori, che ci radicalizziamo, da un lato o dall’altro, senza problematicizzare le singole questioni. Per esempio, se ci definiamo liberal, in un senso culturale, cioè progressisti, dobbiamo sposare tutto: dai diritti civili importanti come i matrimoni tra persone dello stesso sesso, fino all’utilizzo dei pronomi e la partecipazione di atlete trans nelle competizioni femminili. Pena l’essere definiti fascist, una parola che viene buttata lì molto facilmente.

All’interno dell’identità, dunque, tutto finisce sullo stesso piano: il diritto delle tenniste di Wimbledon a giocare non vestite di bianco e il diritto di tutte le donne a decidere di una questione brutale, trasformativa e violenta che accade nel proprio utero. I bagni unisex inaugurati alla presenza del rettore e poi gli assorbenti ancora scambiati di nascosto.

Grande responsabilità di questo spostamento dal concreto ed efficace all’ideale e vacuo ce l’hanno i social: sui social tutto diventa automaticamente simbolico, c’è sempre un secondo fine, un’adesione a un gruppo o a un modo di pensare che trascende l’individuo. Si è parte di una echo chamber in cui ci si esalta a vicenda e si crede di essere paladini dell’umanità intera. Tutti sono filosofi, sociologi, politologi, pensatori, agitatori politici. Dalla body positivity allo stupro, si incorre nell’errore di pensare che solo perché tutto è interconnesso tutto sia sullo stesso piano.

Io sono una grande fan degli ideali. Sono fan anche della filosofia di genere, in particolare mi rifaccio al femminismo intersezionale occupandomi di classi sociali, divario socioeconomico, economia: tutto è interconnesso e non esiste emancipazione di genere in un sistema che schiaccia intere categorie di persone e fa emergere solo poche donne interamente assimilate al sistema patriarcale.

Quello che è andato storto, però, è che ci siamo sminuite, svalorizzate, pensando che le nostre beghe quotidiane non fossero mai importanti abbastanza. E il “femminismo per tutti” si è allargato così tanto da annacquarsi e perdere efficacia. Nel grande ideale dell’identità abbiamo perso la nostra individualità. Dov’è l’individuo nel dibattito? L’individuo che sceglie? È difficile parlare di controllo del nostro corpo senza passare dalla contraccezione, della contraccezione senza parlare di cosa vuol dire avere un figlio – queste strane creature, le madri – parlare del figlio senza parlare di chi lo tiene, sopra a chi vomita, per quanti anni; e senza ricordare CHIARAMENTE cosa si prova a rischiare una gravidanza indesiderata pur con l’opzione traballante (la 194) di interromperla.

Se noi diventiamo ideali – piuttosto che scomodi, ingombranti corpi, e voci, che agiscono e scelgono, operano sul reale – più facilmente restiamo sottomesse all’interno della uomocrazia, un sistema di governo che si aggrappa alla religione e a qualsiasi espediente per ristabilire un ordine del mondo come lo conoscono gli uomini: più libertà di fare quello che gli pare, più posti per loro nei luoghi di potere, salari ancora più alti a discapito delle donne e delle minoranze, più privilegio, che viene percepito come un diritto. Nel libro Entitled di Kate Manne, non pubblicato in Italia, si parla di questo sentimento degli uomini che le cose siano loro dovute: “Anche quando la sua umanità non è messa in dubbio, la donna è percepita come ‘human giver’, ovvero le donne devono sempre qualcosa agli uomini: lavoro riproduttivo, lavoro emotivo, supporto materiale, gratificazione sessuale”. Anche Dacia Maraini, sul Corriere del 2 marzo 2021, scrive una cosa fondamentale di cui ci siamo scordate, a furia di cianciare di alleati e di quanto gli uomini avrebbero da guadagnare dal femminismo (certo, come no): “A ogni conquista di autonomia femminile corrisponde una perdita di privilegio maschile”. A partire da un estremo individualismo che i social hanno incoraggiato (il racconto in prima persona è diventato lo standard), siamo finiti in una universalizzazione di qualunque cosa. Il fatto di non trovare reggiseni della propria taglia diventa parte di una liberal agenda tanto quanto le questioni di aborto e cultura dello stupro, in un livellamento verso il basso in cui tutto è diritto e niente davvero lo è. Un relativismo assoluto.

Come orientarsi? Come trovare le battaglie che devono essere affrontate senza messa in discussione? Occorre tornare, io credo, all’esperienza diretta, non quella che raccontiamo sui social ma quella che viviamo ogni giorno, limitate o minacciate in misura molto diversa dall’assenza di taglie di un reggiseno rispetto alla minaccia di una gravidanza forzata. Esercitare empatia, ma anche dedicare il proprio studio, la propria voce a supporto di tutti i gruppi marginalizzati, anche su questioni che non ci riguardano direttamente, fa parte di un efficace femminismo inclusivo. Ma alla base di tutto è necessario tornare a mettere il proprio vissuto quotidiano in relazione alla teoria della lotta femminista. Il che non vuol dire chiudersi in un’altra piccola identità (le mie difficoltà più importanti delle tue). Questo non è un invito a dimenticarsi della teoria e cioè che tutte le battaglie sono interconnesse e disinteressarsi alle lotte altrui, ma a umanizzare le proprie, il che significa anche discernerle e approfondirle con senso critico. Solo così le scelte anche politiche riacquistano spessore e corpo.

Nello stesso spirito di riavvicinamento del femminismo alla nostra quotidianità, dovremmo smettere di guardare all’America in cerca di direzione, perché l’America fa paura, è un paese (anche) violento, arretrato, che non capiremo mai per quanto ci piacciano tanto la letteratura e le vacanze a New York. Che il femminismo lo guidino in modo così univoco gli Stati Uniti non è una buona cosa, e forse la fase post MeToo avrà bisogno anche di ridefinire e far progredire un movimento europeo, nei nostri paesi, vicino alle nostre questioni tangibili, e ai nostri singoli corpi.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.