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Svetlana è tornata a rivedere le stelle di kiev

Le città sono fatte di persone e le persone vogliono stare insieme, unirsi alla voce degli altri, vivi e morti, rimettere i vetri alle finestre. Le file di auto che entrano in città, anche se nessuno è salvo, raccontano i sentimenti della realtà in guerra. Storia di chi non è fuggito e di chi ritorna

“Ci saranno altri giorni, ci saranno altre voci.

Sorriderai da sola. I gatti lo sapranno”

Cesare Pavese

Svetlana era scappata in Polonia, con uno zaino e una borsa piccola a casa di un’amica, ma dopo cinquanta giorni è tornata a Kiev, in treno: sulla banchina ha abbracciato suo marito e gli ha detto: portami subito a casa nostra, voglio salutare il gatto. Hanno preso la metropolitana, poi lei ha visto le buche per terra, i calcinacci, ma anche le file di auto che ritornano in città, gli ingorghi e la gente che smista le macerie, una signora seduta su una sedia al sole, sul marciapiede, con gli occhi chiusi e un sorriso sulla faccia. Svetlana ha pianto, suo marito le camminava accanto silenzioso e invecchiato, con la fronte più ampia oppure meno capelli, e lei gli ha detto: questa è la mia città. Anche se nessuno è salvo, nessuno è al sicuro, anche se ci sono gli amici morti e le case distrutte e un presente incerto quanto il futuro.

I sentimenti sono la realtà, e nei sentimenti della realtà in guerra, quindi dentro l’anima di quello che accade, c’è il desiderio di tornare a casa. Ricostruire. Riaprire il bar, rimettere i vetri alle finestre. I sindaci delle città dicono: è pericoloso. Ma si commuovono. Le madri dicono: è ancora presto. Putin dice: vi annienteremo. Ma le città sono fatte di persone e le persone vogliono stare insieme, condividere il sollievo e le lacrime, raccontarlo, sentire che gli altri capiscono quello che è successo e che il negozio di computer è chiuso ma il proprietario è lì che spazza la strada, dentro la sua storia tragica che racconterà solo a qualcuno che conosce già il nome delle vie e dei vicini. Le persone vogliono pulire i balconi.

Svetlana mi ha detto che a casa, a Kiev, il gatto era scomparso. Il marito lo chiamava, agitava la scatola dei croccantini, lo aveva cercato sotto il letto e dentro l’armadio, ma insomma non sono stati giorni in cui si faceva troppa attenzione a un gatto. Aveva anche pensato che fosse scappato e non aveva il coraggio di dirlo a Svetlana, ma in quel diluvio di brutte notizie, di massacri e di paura per i genitori e per i fratelli non ci pensava più tanto, gli lasciava comunque la ciotola dell’acqua. Svetlana è rientrata in casa, ha aperto le finestre, ha cominciato a togliere la polvere, ha acceso la musica e non il notiziario, poi ha fumato una sigaretta sul balcone e ha sentito qualcosa di leggero su una gamba, come una carezza. Il gatto era lì, più magro, tranquillo, in attesa, guardava oltre i palazzi, poi si è sdraiato sopra una pantofola di Svetlana e si è addormentato. È tornato anche lui, se è stato via, mentre decine di migliaia di persone tornano ogni giorno. I bambini ancora no, ma quelli che sono rimasti sono diventati più alti e hanno bisogno di vestiti nuovi, le scarpe sono strette e non si può più aspettare per riaprire i negozi. Le maniche delle felpe sono corte, i capelli sono lunghi. Il noleggio di biciclette adesso funziona di nuovo e fa sconti per ripartire, ma anche per dare un po’ di coraggio a chi sta chiuso in casa con le serrande abbassate. Svetlana sa che ci sono persone, giornali, atteggiamenti, notizie che mettono in dubbio quello che è successo, mettono in dubbio anche le ragioni e il diritto di difendersi e dice che è come calpestarle la faccia e spaccarle tutti i denti, e che allora “agli altri non lo dico”, perché è troppo umiliante, perché toglie le forze e spera, si illude che suo marito non venga a saperlo. Anche per questo voleva assolutamente tornare a casa sua, per toccare la verità e per non abituarsi alla guerra come a un ronzio nelle orecchie, per non sentire quelle frasi che le spaccano

i denti. Sono le frasi di chi, altrove, tratta questa guerra come un chiacchiericcio: tragico ma di una tragicità annebbiata dalla vaghezza e dalla distrazione, dalla derisione perfino, e dalla smorfia di chi ritiene di saperla lunga. Ma l’esistenza è piena tutti i giorni di chiacchiericcio e anche questo significa essere vivi: tapparsi le orecchie, arrabbiarsi, fare progetti per il futuro. Tornare a casa.

Se ci chiediamo se sia possibile non abituarsi al peggio, la risposta è: no. Il marito di Svetlana si è abituato alle raffiche di mitragliatrice e alle sirene che dicono di andare a nascondersi in cantina, non le sente più o comunque le ignora, continua a fare quello che stava facendo con qualche imprecazione in più. Il cervello gli dice di andare avanti, il sentimento gli dice di aggiustare il pavimento e di unire la sua voce a quella dei vicini, di prendersi cura di chi ha perso tutto, di chi non ha aiuti, di chi non ha scorte di cibo ma non vuole o non può uscire di casa. Ci sono persone che non possono muoversi dal letto, ci sono donne che sono state toccate dall’orrore dell’uomo e non vogliono nemmeno più accendere la luce e non vogliono niente da nessuno, ma guardano il bambino che hanno tra le braccia e lo baciano e stanno sveglie a controllare il suo respiro. L’essere umano è più grande della guerra, perché contiene tutto dentro di sé: il peggior male, il miglior bene. L’atto eroico di dare la vita e l’atto eroico di spazzare via le pietre dal portone e dire: non mi muovo da qui.

“Ah, che stelle ci sono in Ucraina. Mi si stringe il cuore, delle volte ho una voglia tormentosa di salire sul treno… e via! Vedere ancora i burroni coperti di neve… il Dnepr… Al mondo non c’è una città più bella di Kiev”. L’ha scritto Bulgakov, che è nato a Kiev e a Kiev si è laureato in Medicina: l’ha scritto cento anni fa in Racconti di un giovane medico ma l’ha fatto Svetlana oggi: salire sul treno e via, tornare a Kiev anche se è sconsigliato, anche se adesso, dentro il cuore del mondo, la strada è incerta. Lo stanno facendo in tanti: fanno valere la propria storia e allora non è più solo una storia della guerra ma anche una storia dei sentimenti, in cui vibra il senso di un’eternità. Mattone dopo mattone, lenzuola pulite, carta igienica, profumo di caffè e consapevolezza che non ci sono soltanto i vivi, i sopravvissuti al progetto di annientamento.

Ci sono tutti: quelli colpiti mentre stavano scappando, quelli caduti combattendo, quelli assediati in un bunker per troppo tempo, senza cibo e senza acqua, quelli presi dalle loro case, quelli sepolti dalle macerie, quelli in bicicletta con le cipolle dentro la busta della spesa. E i bambini che hanno visto che i mostri non sono gli orchi delle favole, ma le persone: ragazzi di vent’anni che erano bambini un attimo fa, uomini che hanno figli e che baciano le mogli prima di partire e vogliono tornare nei loro letti portando i regali saccheggiati. Non ci sono soltanto i vivi, e i morti portano con sé la storia del nostro tempo. Ognuno di loro grida una verità. Ognuno di noi la ascolta, o decide di ignorarla, di passare oltre, di fare come se non ci fosse, di abituarsi da qui al rumore delle mitragliatrici o di negarne l’esistenza. Ma intanto il libro è scritto, e ha la voce delle strade e delle case. Ha la voce di chi fugge e di chi torna. Svetlana ha deciso di tornare a casa, e allora finalmente è tornato anche il gatto.