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Tesoro, è tutto prenotato

È impossibile fare qualsiasi cosa senza un appuntamento, la nostra esistenza è diventata una serie infinita di pianificazioni. La fine dell’improvvisazione è iniziata con le vacanze e poi si è presa tutto il resto: ormai abbiamo Google Calendar introiettato. Ma quanto era bella la vita a caso, guidare di notte per ore verso l’ignoto senza pensare mai: ci sarà posto?

–             Ti piace?

–             Sì, sì

–             Dai, un po’ sbarazzina…

–             Mh..mh…

–             Comunque, sono 30 euro la piega, 8 il balsamo, in più ci sono i 9 euro di mantellina monouso per il Covid. Fa 47. Carta?

Pago, esco cercando di non guardarmi nella vetrina. Inutile.

C’è una signora over cinquanta per strada, e ha i boccoli. Purtroppo sono io.

Parrucchieredimerda, penso, ha un nuovo indirizzo. Parrucchieredimerda non è una persona, nemmeno un negozio, ma un franchising che ho creato io nella mia testa; raggruppa professionisti di varie zone di Milano, accomunati da due caratteristiche essenziali: 1) avere posto se chiami all’ultimo 2) essere oggettivamente incapaci.

Mi è chiaro che, in questa città in cui è impossibile fare qualsiasi cosa che non sia stata immaginata, decisa e prenotata con largo anticipo, un parrucchiere che risponda “certo vieni pure oggi”, deve insospettire come certe email di quel notaio nigeriano che ti dice che un’eredità milionaria ti sta aspettando nel suo studio di Abuja. Ma la vita è imprevedibile, e a volte richiede che tu la viva con i capelli in ordine. E allora non c’è altra scelta che chiamare numeri di negozi a caso, presi dalle mappe dell’iPhone. Perché il tuo, di parrucchiere, ovviamente non ha posto.

“E’ tutto prenotato tesoro” risponde lui quando, animata da una specie di delirio di ottimismo, lo chiamo per una piega al volo. “E’ per una cosa di lavoro”, piagnucolo di solito. Ma non si intenerisce: per il vero parrucchiere il diritto alla testa a posto della donna lavoratrice equivale a quello della donna nullafacente. Ci sta. “Vengo coi capelli già lavati, i capelli bagnati”, è un mio grande classico. Dall’altra parte del telefono l’ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione. “Ti chiamo se qualcuno disdice”, promette ogni volta. Ma so bene che nessuno lo farà, per cui rilancio: “Non è che puoi provare a fare qualche cambio tu? Intendo: chiami le clienti e chiedi se possono spostare il giorno…”. Silenzio. E poi un disperato: “Se mi dai i numeri provo io”. “Ciao, Silvia, alla prossima. Hai un appuntamento tra un paio di mesi, mi pare”. Cloc. Apro Google Calendar e sì, ho un appuntamento tra un paio di mesi. Lo stesso giorno, fatalità, ho anche l’igiene orale. Alla mia igienista dentale piace fissare gli incontri a distanza di 365 giorni spaccati. “Facciamo il 3 ottobre 2023? Alle 17 va bene?”. Non so nemmeno se sarò viva il 3 ottobre 2023, figurarsi se posso avere un’opinione sull’orario; ma rispondo sempre che va bene. Il mio calendario è costellato di appuntamenti così, a lunghissima gittata: vederli segnati ha uno strano effetto rassicurante. Li immagino come piccole boe galleggianti; il resto è tutto mare in tempesta, giorni e giorni in balia del caso, date senza nessun impegno fissato, nelle quali, è certo, mi toccherà combattere per esaudire desideri improvvisi, rispondere a bisogni imprevisti. Vivere, insomma.

Non saprei dire quando è successo che la nostra esistenza è diventata una serie infinita di prenotazioni, una pianificazione minuziosa del tempo e dello spazio, un’ipoteca senza fine sui nostri piaceri. Se ripenso alla mia vita adulta vedo un restringersi lento e inesorabile dell’improvvisare: è iniziato con le vacanze, e poi si è preso tutto il resto.

Quando leggerete questo pezzo io sarò in Grecia. Peccato non sapere il giorno esatto in cui lo farete, perché potrei dirvi non soltanto su quale isola sarò, ma anche dentro quale casa, e in quale ristorante cenerò quella sera. Addirittura con che modello di auto o motorino a noleggio ci sarò arrivata. Se mi impegnassi potrei anche dirvi che cosa mangerò, ma fa caldo e poi che vi importa.

Ho tutte queste informazioni da mesi, da quando, ad aprile, abbiamo prenotato il volo per Atene. Volevamo fare una vacanza un po’ così, “come le facevamo da ragazzi”, ci siamo detti in casa. Ma poi il coro greco (per l’appunto) degli amici esperti delle varie isole ha sentenziato: “Siete pazzi! Bisogna prenotare”. Prenotare cosa? “Tutto”.

La prenotazione globale ha portato con sé scambi di whatsapp surreali, tipo:

-Il 20 agosto ti va di mangiare roba alla griglia?

-Oddio, non lo so, penso di sì. Perché????

-Il ristorante carino, con la grande brace, ha posto solo quella sera.

-Ma è elegante? Ricordati che viaggiamo col bagaglio a mano, come fosse il 1993: non avrò niente di decente da mettermi.

-E cosa ti mettevi nel ’93?

-Non andavo al ristorante.

A nominare il ’93 ci è venuta a tutti una grandissima nostalgia di viaggi governati da variabili che non fossero c’è posto/non c’è posto. Vacanze di cui sapevi la data d’inizio e di fine (questa nemmeno sempre) ma non quello che accadeva in mezzo. Nessuno prenotava niente, così un posto saltava sempre fuori da qualche parte. E pazienza se c’era da spostarsi, adattarsi, accontentarsi. Non voglio essere inutilmente nostalgica: qualche volta questa incertezza si tramutava in viaggi da incubo e attese infinite, accolte però con un certo fatalismo. Mi pare che dalle vacanze non ci si aspettasse che fossero necessariamente indimenticabili.

Settimana bianca, febbraio del 1978, mio padre guida la Lancia Beta per sette interminabili ore, io soffro il mal d’auto, mangio tocchi di emmental per non vomitare. Il fatto che mio padre fumi la pipa e mia mamma sigarette senza aprire nemmeno i finestrini non aiuta. Abbiamo prenotato sette giorni in un delizioso albergo dell’Alto Adige, un incanto di neve e tende a quadretti. La signora della reception ci guarda entrare, dice “Guten Abend” e poi continua a parlarci in tedesco. Mio padre la interrompe sorridendo: “We don’t speak german”. Mia madre chiede vezzosa: “Parlezvous français?”. Io sto zitta perché ho la nausea.

La signora va avanti imperterrita. “Non c’è nessuno che capisca l’italiano in questo hotel?”, domanda a un certo punto mio padre. “Nein”, risponde lei, smascherandosi. “Eccheccazzo, qui siamo in Italia. E noi ce ne andiamo”, sbotta papà brandendo una racchetta da sci.

Sono le nove di sera, nevica, e siamo di nuovo in macchina.

“Dove andiamo?”, chiede mia madre accendendosi una Muratti. “Al Passo del Tonale”, risponde lui. “Mi hanno detto che c’è un albergo carino”.

Ecco, lo spirito di tutto ciò che è stato prima di Booking, Expedia, The Fork e OpenTable per me sta nell’immagine di quella macchina che per 150 chilometri attraversa la notte e una tempesta di neve per raggiungere un albergo “carino” dove, però, nessuno sa se ci sia posto. E nessuno, nelle tre ore di viaggio, si porrà il problema. Ripenso a quel viaggio ogni volta che vorrei mangiare giapponese in un certo ristorante, ma la voglia mi viene sempre al momento sbagliato, cioè non tra le 11 e 30 e le 12 e 15 che è l’orario in cui si può prenotare. Le rare occasioni in cui sono riuscita a ricordarmelo per tempo, e a prendere la linea, mi hanno dato il tavolo dopo due settimane. Mi andava ancora di mangiare il sushi quando è stato il mio turno? Non lo so, però era buono. Ci penso quando mi asciugo i capelli da sola con il Dyson costosissimo che mi sono comprata, nel tentativo di affrancarmi dal mio parrucchiere e da tutti i Parrucchieridimerda. Ma non ho manualità, i capelli rimangono ispidi e flosci insieme, una specie di miracolo al contrario. Ci penso quando aspetto quattro giorni per prendere un aperitivo che avrei voluto prendere quattro giorni prima, e quando arriva il mio tavolo non si libera all’ora stabilita e io divento una bruttissima persona perché ho aspettato 96 ore, ma quei 15 minuti sono quelli che mi fanno perdere la testa.

Io ci provo a essere libera, ma non ci riesco. Ho la vita schedulata introiettata, me ne accorgo quelle rarissime volte in cui qualcuno, alla mia richiesta di appuntamento, risponde: “Non prendiamo prenotazioni”. Lì per lì mi gira la testa, per un istante sono felice, poi molto triste: visualizzo code chilometriche, furbetti, favoritismi all’ingresso, forse risse. Meglio lasciar perdere, chiamiamo un delivery.

Ah, poi in quell’albergo carino la stanza c’era. Siamo arrivati a mezzanotte, scaricando i bagagli abbiamo fatto a palle di neve.

Silvia Nucini (Milano, 1969), giornalista, scrittrice e autrice. Cura “Voce ai libri” (Chora), podcast settimanale di interviste a scrittori e scrittrici.