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Tre minuti di pura gioia

Un vecchio ritornello, un piacere nuovo. È qui la festa, ma anche l’euforia della commozione: la luce in musica che illumina tutti e suscita emozioni altrimenti inesprimibili. Viaggio culturale, intimo e sentimentale nelle canzoni, il genere letterario più interclassista che c’è

Qualche giorno fa mi è capitato di ascoltare alla radio Romeo’s Tune di Steve Forbert. Non era la prima volta che la ascoltavo, ma non è nemmeno una di quelle canzoni che si sentono di continuo, o che sono così famose che basta pronunciarne il titolo per evocare tutto un mondo di emozioni e ricordi, canzoni come – mettiamo – Albachiara o The River. Il ritornello di Romeo’s Tune fa così:

Meet me in the middle of the day

Let me hear you say, “Everything’s okay”

Bring me southern kisses from your room

Meet me in the middle of the night

Let me hear you say, “Everything’s alright”

Let me smell the moon in your perfume

 

Solo che Romeo’s Tune è una di quelle rare canzoni che cominciano col ritornello, perciò l’impressione di festa e di solarità data dalle parole e dalle metafore (fammi sentire che dici “Va tutto bene” / fammi sentire la luna nel tuo profumo) non viene preparata dalla strofa ma arriva subito, dopo due brevi arpeggi di pianoforte. Il testo non è complicato come quello di tante canzoni dell’ultimo mezzo secolo, ma contiene metafore che suonerebbero bizzarre o insensate in prosa: i “kisses from your room” sono “southern” perché la ragazza che dovrebbe portare questi baci viene dal sud? O semplicemente perché la stanza si trova a sud? O per qualche altra ragione? (O per nessuna ragione: ai cantanti capita mille volte di dover ricorrere a delle zeppe). E più avanti, nella strofa, cosa vuol dire “It’s king and queen and we must go down now beyond the chandelier”? Non è chiaro, ma questa relativa opacità non impedisce di capire l’essenziale, cioè che Romeo’s Tune è una specie di dichiarazione d’amore con la quale questo Romeo invita la ragazza che ama a fuggire con lui. E non impedisce neppure a chi ascolta di godere di questa festa, anche e soprattutto grazie alla melodia quintessenzialmente pop che accompagna il testo e all’interpretazione spensierata che ne dà il suo autore, alla voce allegra che gli presta.

Riascoltare Romeo’s Tune dopo tanto tempo è stato un piacere così grande da durare per quasi tutta la giornata. Il piacere era complicato, e aumentato, dai ricordi: anni fa avevo fatto conoscere Romeo’s Tune a una fidanzata e anche lei si era innamorata del pezzo, l’aveva canticchiato con me, e con me aveva cercato di decifrarne il testo. Erano gli anni prima di internet, era tutto più difficile, i testi delle canzoni, salvo i più famosi, erano quasi irraggiungibili. Quella fidanzata non era durata a lungo, ma l’ascolto di Romeo’s Tune, tanti anni dopo, non ha riportato alla memoria l’amaro della separazione ma solo il dolce delle ore passate insieme. Pura gioia. I cinici potrebbero obiettare che si tratta di un piacere raro, perché di Romeo’s Tune non ce ne sono tante, e che siamo assediati da canzonette atroci che né l’ascolto né il riascolto, per quanto partecipi, riescono a migliorare. Ma in realtà questo non è vero. Da quando ascolto musica con un po’ di coscienza, diciamo dagli 11-12 anni, le canzoni che mi hanno fatto l’effetto rasserenante di Romeo’s Tune sono state centinaia. O forse dovrei dire che centinaia sono state le canzoni che mi hanno fatto un qualsiasi effetto: perché non è il rasserenamento che si cerca in una canzone quando si è adolescenti, semmai uno stimolo all’immaginazione, un fiotto di adrenalina che ci porti via dal luogo e dal momento in cui ci troviamo, che ci faccia sentire diversi da come siamo realmente, cioè più forti, realizzati, felici (l’emozione che a quell’età dava Siamo solo noi, che da adulti è inascoltabile), oppure capaci di un’intensità di vita che la vita ordinaria non contempla (certe canzoni di Baglioni).

I cinici potrebbero anche obiettare che Romeo’s Tune fa questo effetto perché il testo e la musica contengono una promessa di felicità che non può che suscitare euforia, mentre ci sono un mucchio di canzoni tristi che fanno l’effetto opposto: è difficile uscire rasserenati da You Want It Darker di Cohen. Ma non è vero neppure questo. Da un lato perché anche le canzoni serie, riflessive, e persino quelle tristi e angosciate possono generare in chi le ascolta quel piacere che si chiama catarsi (come le poesie, come i romanzi). C’è un cortometraggio del 2008 intitolato Filmquiz in cui Nanni Moretti parla brevemente di quaranta film lasciando allo spettatore il compito di indovinarne il titolo. Del quarantesimo dice: “E mentre sto riflettendo, dopo molto che il film è partito, che in fondo i film corali lasciano un po’ freddi, e che l’idea di questo film è migliore del film stesso… BÈ, in quel momento…”. In sottofondo parte The Sound of Silence di Simon e Garfunkel, Moretti fa una pausa di qualche secondo e poi aggiunge: “E per un quarto d’ora, fino alla fine, ho pianto” (il film è Bobby, sull’assassinio di Robert Kennedy). Ma quello non è un pianto amaro, non sono lacrime che si vorrebbe non piangere; al contrario, è un pianto che stimola emozioni piacevoli – il piacere, l’euforia della commozione – perché sembra metterci in comunicazione con qualcosa di autentico e profondo che forse avremmo difficoltà a esprimere con le parole. Parlando delle arti di massa che hanno riempito la vita degli occidentali nel corso del Novecento, il sociologo Dwight Macdonald ha scritto che “si tratta di una cultura adulterata e volgare che evita sia le realtà profonde (il sesso, la morte, il fallimento, la tragedia) sia i piaceri semplici e spontanei” (Dwight Macdonald, Controamerica, Rizzoli, 1969, p. 80). Per quanto riguarda le canzoni, questo poteva essere vero fino agli anni Sessanta, ma oggi senz’altro non lo è più. Buona parte delle canzoni contemporanee non evita affatto le “realtà profonde”; alcune, come The Sound of Silence, scavano tanto in profondità da far piangere.

Dall’altro lato, non si può dire che Romeo’s Tune rappresenti un’eccezione, perché le canzoni pop degli ultimi decenni si sono spesso assunte il compito di parlare dei lati belli della vita, di esplorare non il suo grigio ma il suo rosa: che c’è. Una volta chiesero a Philip Larkin come mai le sue poesie fossero così tristi, e lui rispose: “Ma è l’infelicità che genera le poesie. Essere felici non genera poesie…” (Required Writing, Faber & Faber, 1983, p. 47). Da che mondo è mondo, un empito di gioia non ispira la scrittura bensì il canto. E anche se sarebbe sbagliato capovolgere l’affermazione di Larkin e dire che è la felicità a generare le canzoni, non sarebbe sbagliato dire che, tra le varie arti, la musica accompagnata dalle parole – in una gamma di possibilità che va dal melodramma al rap, e dall’Inno alla gioia a L’allegria di Jovanotti-Morandi – è quella che più facilmente genera felicità in chi si espone al loro influsso. Le cose stanno cambiando? In un saggio recente, Alberto Acerbi e Charlotte Brand hanno documentato come i testi delle canzoni stiano diventando più tristi, cioè contengano sempre più spesso parole che veicolano emozioni negative, come pain, hate, sorrow, anziché positive come love, joy, happy (Alberto Acerbi e Charlotte Brand, Why Are Pop Songs Getting Sadder Than They Used To Be?,www.aeon.com, 4 febbraio 2020):

Se assumiamo una media di 300 parole per canzone, ogni anno ci sono 30.000 parole nei testi delle 100 canzoni più ascoltate. Nel 1965, circa 450 di queste parole erano associate a emozioni negative, mentre nel 2015 il loro numero era superiore a 700. Nello stesso lasso di tempo, le parole associate a emozioni positive sono diminuite: c’erano più di 1.750 parole che esprimevano emozioni positive nelle canzoni del 1965, ce ne sono solo circa 1.150 in quelle del 2015.

Acerbi e Brand avanzano delle ipotesi per spiegare questa inversione nel mood delle canzoni: può darsi, scrivono, che “un’industria discografica più centralizzata avesse un maggiore controllo sui testi”, e che avesse interesse a euforizzare, non a deprimere il pubblico soprattutto giovane che comprava i dischi; e può darsi che “canali di distribuzione più personalizzati (dalle cassette vuote all’algoritmo Made For You di Spotify) […] abbiano contribuito a rendere più accettabile, e persino remunerativo, esprimere esplicitamente dei sentimenti negativi”.

Può darsi. A me pare però che la ragione principale di questa virata al negativo stia nel fatto che le canzoni hanno cominciato a farsi più complesse e profonde, cioè a prendere in considerazione aspetti della vita che le canzoni di una volta ignoravano. Al loro centro non sta più l’idea delle relazioni sentimentali “come un insieme di desideri che si realizzano all’infinito e in modo perfetto, o di separazioni inevitabilmente mitigate dal balsamo di un bacio” (Daniel Mendelsohn, Bellezza e fragilità, Neri Pozza, 2009, p. 29). Il repertorio dei temi si è ampliato e, ampliandosi, si è fatto più scuro, e meno aderente all’esperienza immaginata che all’esperienza vissuta: che è anche esperienza di frustrazioni e fallimenti.

Nella seconda edizione del Festival di Sanremo, nel 1952, sette delle prime dieci canzoni classificate erano canzoni d’amore. Al Festival del 2019 la percentuale si era quasi dimezzata: quattro su dieci. Ma bisogna tenere presente che Sanremo è per eccellenza il luogo della tradizione, quello in cui si portano le “canzoni da Sanremo”, che sono soprattutto canzoni d’amore. Al di fuori di quel recinto oramai così stretto, le canzoni che si ascoltano e che piacciono non sono più, per la maggior parte, canzoni d’amore. Quali sono i loro temi, allora? Tutti, tutti i temi, in uno spettro amplissimo che va dall’eccezionale (Leaving New York e Houston dei REM, ispirate all’11 settembre e all’uragano Katrina) all’ordinario: salvo che questo ordinario – l’esistenza quotidiana, le idee e le passioni comuni – viene esplorato con uno spirito di verità e di aderenza alla vita che le “canzoni di una volta” non conoscevano. Delle tre canzoni su dieci che non parlavano d’amore, al Festival di Sanremo del 1952, la prima era una preghiera davanti a un’immagine sacra (Una donna prega), la seconda evocava i bei sogni della giovinezza (Libro di novelle), e la terza era Papaveri e papere. Oggi invece è normale leggere e ascoltare un testo come questo degli Editors, che parla di come bisognerebbe vivere e morire (The Weight of the World):

Keep a light on those you love

They will be there when you die

Baby, there’s no need to fear Baby,

there’s no need to cry

Every little piece in your life will

add up to one

Every little piece in your life

will mean something to someone

 

Ma è ancora più normale leggere e ascoltare testi che, anziché cercare di dire il senso dell’esistenza (come, poniamo, My Way di Sinatra), ne mettono a fuoco un frammento qualsiasi, ovvero prendono in carico l’esperienza, la minuta realtà della vita, secondo una traiettoria analoga a quel “passaggio al realismo” che secondo Edgar Morin definisce la storia delle arti popolari nel Ventesimo secolo (Lo spirito del tempo, Meltemi, 2002, pp. 106-7). E insomma le canzoni non sono diventate le “nuove poesie”, come si dice ogni tanto, ma è vero che nell’arco di pochi decenni – diciamo dai Beatles in poi, e in Italia da Paoli, Tenco, Endrigo in poi – hanno assorbito l’orizzonte problematico e quindi il lessico, delle poesie (e quindi sì, in un certo senso, se guardiamo non alla loro forma ma alla posizione che occupano nel sistema dei generi letterari, sono diventate le nuove poesie).

Al di là di tutto questo gran riflettere, però, la cosa che prima di ogni altra mi è venuta in mente, riascoltando dopo tanto tempo Romeo’s Tune, è che quello che stavo provando era un piacere nuovo, una nuova occasione di felicità. Nuova, s’intende, se misurata sui tempi lunghi della vita e dell’arte occidentale. Le canzoni ci sono sempre state; ma le canzoni concepite in questo modo – canzoni che presentandosi come il riflesso di un’esperienza personale riescono a evocare emozioni e sentimenti che l’ascoltatore riconosce come familiari – sono un oggetto che un secolo fa non esisteva. Ed è un piacere al quale tutti possono accedere, una luce che illumina tutti, indipendentemente dal loro livello sociale e culturale. Non esiste un genere artistico più interclassista della canzone, e insieme più autenticamente popolare non nel senso di “tradizionale” bensì nel senso di “accessibile alla gente comune”. Nessuna delle arti del passato è stata in grado di trasmettere emozioni tanto forti a persone tanto diverse per cultura, censo, atteggiamento nei confronti della vita. Cent’anni fa, per la gran parte delle persone normali, questi sentimenti erano inesprimibili. Le arie dell’opera non erano la stessa cosa, e non avevano una diffusione e una presenza sociale davvero paragonabili. Per qualcuno, una ristretta minoranza, c’era la poesia. A casa dei miei genitori c’era una copia di Myricae con le pagine consumate dall’uso. Non tutte le pagine, solo quelle della Cavalla storna. Mia madre leggeva e rileggeva quei versi, e piangeva di commozione. Oggi questa chance di identificazione la danno le canzoni, solo infinitamente più forte e continua. Non serve leggere un libro, non serve nemmeno sfogliarlo; basta andare su Spotify.

Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. Tra i suoi ultimi libri: “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca” (il Mulino, 2020) e “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?” (Rizzoli, 2021).