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Tutto questo tempo nuovo, che me ne faccio?

Sessantaquattro milioni di ore potenzialmente libere, e acquagym il mercoledì pomeriggio. Uffici più vuoti, riunioni su Zoom e un pensiero possibile: «Che figata licenziarsi». Ma perché allora questo senso di colpa? I gorilla di Jane Goodall non sanno che farsene delle avventure

Sono le 15 e15 di un mercoledì pomeriggio di novembre 2022 e sono immersa nell’acqua fino alla vita. Con le gambe pedalo su una cyclette anfibia e con le braccia roteo pesi galleggianti, attenta a non urtare, né da una parte né dall’altra, le mie vicine di allenamento: due ottuagenarie, al colpo d’occhio gemelle. Dalle casse i Frankie Goes to Hollywood cantano Relax in una versione techno, l’insegnante a bordo piscina mima i movimenti, ci chiama “ragazze”; le ragazze a mollo ridono, ingarellate non tanto nella performance atletica quanto nello sfoggiare intimità con lui, il maestro, un tipo che si chiama Marco, non c’è dubbio che si chiami Marco, visto che tutte continuano a urlare il suo nome. Nonostante sia l’unica sotto i settant’anni sono la più negata, è la prima volta che faccio acquagym e non riesco a concentrami perché continuo a pensare: sono in una fiction di Rai 1 oppure, se la luce è buona, in un film di Sorrentino. Alle 16 esco dal centro fitness coi capelli mezzo bagnati, mezzo strinati come solo il phon a muro può farli. Alle 16 e 30 sono seduta nella mia cucina: ho le forbici in mano e sedici piccoli pezzi di plastica sparpagliati sul tavolo. Ho tagliato l’abbonamento – a breve comunque in scadenza – della palestra.

In palestra ci sono andata per più di dieci anni ma sempre e solo la mattina, dalle sette alle otto. Poi dovevo correre a lavorare. E miliardi di mercoledì pomeriggio in cui sono stata alla mia scrivania, su un aereo, un treno, nella hall di un hotel da qualche parte nel mondo ad aspettare qualcuno da intervistare, ho sognato di essere fuori a fare una cosa normale, che so, andare in palestra. «Attento a ciò che desideri, potrebbe avverarsi» mi sembra il modo più indicato per concludere questo capoverso.

Nei primi nove mesi del 2022 il ministero del Lavoro ha registrato 1,6 milioni di dimissioni, contro gli 1,3 milioni del 2021 (dati Sole 24 Ore): il contributo italiano al fenomeno “Great Resignation” esploso nel 2020, ma in realtà partito in silenzio (e in America) dalla crisi economica del 2008.

Chi non si è licenziato si è comunque trovato a lavorare in un mondo molto diverso da quello pre pandemico. Uffici più vuoti per lo smart working, riunioni su Zoom invece che in presenza, colleghi un tempo stakanovisti convertiti al quite quitting, nuovi colleghi (a sostituire i dimessi) giovani e abili a delimitare il loro tempo lavorativo con un piglio capace di incenerire anni di ideologiche lotte sindacali. Una destrutturazione del posto fisso vantaggiosa per tutti e che ha come primo effetto collaterale quello di creare tempo. Tempo per chi è rimasto, e soprattutto per chi è uscito dal sistema: se moltiplichiamo il numero dei dimessi del 2022 per 40 ore settimanali fa 64 milioni di ore libere in più la settimana. E’ un conto che non ha nessuna base scientifica e forse nemmeno un senso, ma la cifra impressiona. Sessantaquattro milioni di ore potenzialmente libere e io vado ad acquagym e incontro solo gente in pensione da anni?

Susanna, una giornalista che si è dimessa dalla mia stessa azienda, invece l’ho incontrata da Eataly in un orario improbabile tipo le 11 e 30 del mattino. Ci siamo salutate come se ci incrociassimo per caso su Marte e subito la conversazione si è trasformata in quella di due convalescenti che fanno una passeggiata nel giardino dell’ospedale: felici di stare bene, ma ancora caute nei movimenti. «E’ tutto così strano», mi ha detto lei. «Vado ai consigli di classe delle mie figlie, cucino per la cena, ho mille progetti professionali. Ma tutto questo tempo nuovo mi fa sentire in colpa». «Non ti preoccupare, poi passa», le ho mentito io. Non è vero che passa: mi sono licenziata da quasi due anni e tra le 9 e le 19 dei giorni feriali continuo a sentirmi molto strana, anche se sto chiusa in casa a scrivere, anche se lavoro più di prima, anche se faccio solo cose che mi piacciono davvero. Sono come quei gorilla nei vecchi video di Jane Goodall: lei apre la cassa di legno per farli andare liberi nella foresta, ma loro stanno lì, la abbracciano. Se sei nato in cattività non sai che fartene di tutti quegli alberi, tutte quelle avventure. Non per tutti è così, ovviamente. Greta si è licenziata dal suo posto a tempo indeterminato nel 2019 e per due anni interi ha vissuto senza nessuna certezza. «Sono stati due anni bellissimi: ricordo che mi preparavo il tè di pomeriggio, certe giornate senza fare nulla se non stare in giardino, e poi mettere a letto le bambine e lavorare di notte. Era un tempo che assomigliava alla parte più vera di me. E’ finito quando mi hanno offerto un contratto a cui non potevo dire di no. Ripenso a quei momenti con molta nostalgia». Qualche ora dopo avermi raccontato queste cose, mi manda un WhatsApp, caso mai non avessi capito. Dice: «Che figata licenziarsi».

Fino a poco tempo fa non pensavo mai all’età delle persone, adesso è la prima cosa che chiedo, la prima cosa che considero quando mi raccontano un qualsivoglia aneddoto: sapere quanti anni ha il protagonista mi sembra il dato interpretativo essenziale. Quindi sono certa che anche l’atteggiamento verso la libertà abbia a che fare con l’età che hai quando te la ritrovi fra le mani. Cerco in rete una correlazione tra la riuscita del reinserimento nell’ambiente naturale di un animale e i suoi anni, e trovo un documentario della Bbc che mi dà ragione: più l’esemplare è adulto e più tempo ha trascorso in cattività, meno il suo ritorno alla vita libera avrà successo. Quando mi imbatto nella storia dell’orca Keiko, già protagonista del film Free Willy, liberata a furor di popolo e morta di polmonite in un’ansa della costa norvegese dove si era infrattata alla ricerca di contatto umano chiudo tutto molto velocemente. Comunque Greta è più giovane di me. Anche Giulia è più giovane, molto più giovane, non ha nemmeno 40 anni. Ha lavorato come photo editor in un quotidiano e poi, a marzo 2020 ha preso un incentivo e si è licenziata. Ha dedicato questi tre anni a occuparsi di fotografia da freelance, ma anche a fare quelle che lei chiama le sue «esplorazioni»: ha studiato l’arabo, e l’estate scorsa l’ha passata in una malga del Trentino, a fare la pastora. Le due cose non hanno, ovviamente, nessuna correlazione, semplicemente «sono le situazioni in cui mi vado a cacciare nell’indecisione. A me queste situazioni piacciono, ma ho un vago senso di colpa perché forse sto perdendo del tempo». Il senso di colpa, però, sembra qualcosa che ha a che fare più con gli altri che con sé stessa: lo prova verso i suoi genitori «che avevano festeggiato la mia assunzione a tempo indeterminato» e anche verso gli amici che magari a quarant’anni sono ancora precari o «hanno fatto il triplo della fatica che ho fatto io ad avere un posto di lavoro». Quel posto di lavoro a cui lei ha detto «basta, grazie» potendo contare su una casa ereditata dalla nonna e su uno stile di vita con pochissime pretese, e spese. Mi racconta che il suo problema più grande rispetto al tempo è, ora, quello di separarlo dalla vita, creare dei confini, non lasciare che la possibilità di lavorare quando vuole si trasformi in lavorare sempre. Uno dei motivi per cui io ho odiato gli anni dell’università è stato esattamente questo, la sensazione che ogni momento fosse buono per studiare e quella speculare: se non studiavo, lo stavo sprecando. Fra le tante ebbrezze della mia prima assunzione c’era anche la consapevolezza che, da quel momento, il mio tempo libero sarebbe stato spensierato. E anche quando il lavoro si è mangiato quasi tutte le mie giornate, questa spensieratezza non è andata via. Precisare che sto scrivendo questo pezzo nell’assolatissimo pomeriggio di un giorno di festa mi sembra il modo più indicato per concludere quest’altro capoverso. Oltre al tema del tempo, Giulia pone un’altra questione interessante: quella dell’identità.

«Dire: ciao sono Giulia, sono la photo editor di X è una formula che non richiede sforzo né in chi la pronuncia – io – né in chi la ascolta. Diverso è presentarsi e dire: sono una photo editor punto. Se non hai un posto, devi credere molto di più nella tua identità». Essere SilviaNucini-di-Vanity-Fair è stato, per quasi vent’anni, molto più che un modo di presentarmi, di stare nel mondo. E’ stata la mia formula omerica. Separarmi da questa definizione è stata la prima cosa che ho affrontato dopo le dimissioni, una specie di autoseduta psicoanalitica concentrata dalla quale sono uscita felice e consapevole di avere un senso anche senza un brand appiccicato al mio nome. Pensavo, passato quello scoglio, che tutto sarebbe stato sereno. Ma dietro ce n’era un altro di scoglio, ed era Capo Horn, i fottuti marosi che bagnano le mie giornate, restringendole. Prima lavoravo 16 ore al giorno, facevo shopping in pausa pranzo, allenavo gli addominali all’alba, correvo al supermercato, nutrivo in qualche modo i figli. Pensarci mi fa lo stesso effetto che deve fare ai vecchi atleti vedere i filmati delle loro vittorie: la straniante consapevolezza che quella persona sei stata tu, ma non lo sei più. Sono una Sara Simeoni che non solo non sa più saltare due metri e zero uno, ma nemmeno sa sedersi sul divano e dire: ok adesso guardo la tv.

«Anche io faccio fatica, in questo tempo continuato, a ritagliarmi dei momenti di piacere», dice Laura che si è licenziata nel 2019. «Ma ci sto lavorando e non vedo l’ora di vincere anche questa sfida minima, eppure vitale». La sfida più grande, anche per lei, è stata superare lo spaesamento iniziale. «Ma poi mi è venuta come un’intuizione: ero libera. Libera di decidere del mio tempo. E di scoprire cose che non sapevo: che esistono le cinque del pomeriggio, e che a quell’ora il mio salotto viene invaso da una luce dorata. Il tempo è diventato qualcosa da abitare interamente, come una casa a più piani della quale, ora, posseggo le chiavi di tutte le stanze. Non ci sono più posti proibiti». Dice anche che il suo rapporto con il tempo è diventato simile a quello che ha con il suo armadio: «Ho un mobile gigantesco, potrei mettere i pantaloni da una parte, le camicie dall’altra, e invece mescolo tutto, anche cose di stagioni diverse. I miei vestiti abitano insieme, sono coinquilini».

Io ho l’armadio ordinato secondo criteri ossessivi compulsivi, ed è l’unico pezzo di passato, l’unica zona franca in mezzo al caos che ha invaso il resto della vita. Mi sembra che ogni giorno tiri vento da una parte diversa, la strada cambi pendenza, fenomeni atmosferici di cui conosco l’origine ma non il nome sorprendano i miei pensieri. C’erano anche prima? Forse, ma andavo di fretta e avevo ombrelli e cappelli sotto cui ripararmi, e nascondermi. Ora mi bagno, mi scotto, e mi dico che tutto questo tempo di cui non so che cosa farmene forse serve anche solo a questo: a cercare un piccolo riparo e chiamarlo la mia nuova vita.

Silvia Nucini (Milano, 1969), giornalista, scrittrice e autrice. Cura “Voce ai libri” (Chora), podcast settimanale di interviste a scrittori e scrittrici.