Rientrato dall’Ucraina, a luglio scorso, producevo pensieri di morte in eccesso. Ogni giorno mi trovavo a fare la ronda mentale degli affetti, elencando chi accanto a me sarebbe potuto morire, e come, e cosa questo avrebbe cambiato. L’altro sintomo bizzarro del ritorno è stato una specie di furia riorganizzativa. Da luglio in poi ho occupato ogni istante libero mettendo in ordine qualche stanza, svuotando armadi, svasando e rinvasando piante, pulendo filtri e pozzetti di ogni scarico idraulico di casa. Ero in grado di riconoscere l’attenzione improvvisa per i depositi di calcare per ciò che era: un’anomalia, una nevrosi. Mi sembrava anche una reazione alquanto ovvia alla carica di pensieri di morte. Eppure saperlo non era sufficiente per arrestare né l’una né gli altri.
La settimana scorsa mia moglie era in viaggio in Romania, il che mi ha concesso un certo agio nel prendere iniziative che avrebbe scoraggiato. Senza il suo consenso, ho deciso di scambiare la sua scrivania con la mia. Un’azione facile da enunciare ma che ha avviato un giorno e mezzo di lavoro, oltre alla revisione completa del mio studio. Mettere a posto, soprattutto i libri, è di norma un rito propiziatorio per qualcosa che deve iniziare, ma in questo caso non c’era nulla da propiziarmi, solo altra inquietudine da sfogare. Dagli strati di materiale sono saltati fuori i resti di un anno e mezzo di guerra.
Tra questi: ritagli di giornale e numeri monografici di riviste; fotografie; una guida Lonely Planet che avevo comprato prima di partire, nel timore ridicolo che in guerra non avrei trovato abbastanza da dire; un contatore Geiger; una bandiera nazionalista rossa e nera che non ho mai avuto il coraggio di svolgere per intero; un uccellino di lana con gli stessi colori; Chernobyl di Serhii Plokhy e Terre di Sangue di Timothy Snyder; il memoir di Stanislav Aseyev, The Torture Camp on Paradise Street, che desideravo far pubblicare in Italia (non ci sono riuscito); il gagliardetto di una squadra d’assalto; il biglietto da visita di un tassista che mi ha portato da Lviv al confine; Il Donbas è Ucraina di Kateryna Zarembo; un’icona comprata nel seminterrato della chiesa di Bucha; un mazzetto di polaroid, fra cui quella di Alica, la cui storia è rimasta fuori da entrambi i reportage che ho scritto, per mancanza di spazio, e che mi chiedo se riuscirò mai a recuperare; una scheggia di legno con il volto di san Pietro; una scheggia di tegola prodotta nella vecchia fabbrica di New York, in Donbas (chissà perché dall’Ucraina mi porto dietro ogni volta una quantità di schegge); un frammento di rivestimento nero del ristorante dove Victoria Amelina è stata uccisa.
Tutto sparso, tutto nascosto fra i libri. Ho creato una pila ordinata che testimoniava di un anno e dieci mesi di tentativi di capire, un anno e dieci mesi di attenzione intermittente, di tristezza e impotenza. Mi sono detto: faccio spazio su uno scaffale, ma poi ho deciso di no. Ho lasciato la pila a terra, perché per terra ci sono i lavori in progress. Gli scaffali sono per ciò che è pronto per essere archiviato.
Sabato prossimo verrà assegnato il Premio Maria Grazia Cutuli a Victoria Amelina. Maria Grazia è stata uccisa nel 2001, mentre lavorava come inviata del Corriere della Sera in Afghanistan – aveva trentanove anni. Victoria Amelina è morta il luglio scorso nel bombardamento di Kramatorsk, mentre documentava i crimini di guerra russi in Ucraina – di anni ne aveva trentasette. Mi hanno chiesto di ritirare il premio in suo onore e lo farò, anche se mi sembra strano, è la prima volta che faccio qualcosa «in nome di». Per di più, in nome di una persona con cui ho parlato una volta sola, attraverso uno schermo, la cui sorte ha tuttavia provocato una discontinuità nella mia vita, e non solo in quella di scrittore. Spero di essere all’altezza. Me lo ripeto spesso in questo periodo, mentre sposto oggetti da una stanza all’altra: sarai all’altezza? Non ho nemmeno iniziato a capire come l’Ucraina mi abbia trasformato.