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Voglio trovare un senso a questa storia

Ci sono alcune serie tv che vorrebbero raccontarci i nostri anni di formazione, ma non lo fanno. Prendiamo Wanna: un’occasione mancata, e sì che negli anni Ottanta stava cambiando tutto. Ma ci sono eccezioni grandiose, come Prisma, che ci dicono che cos’è il presente e come siamo diventati grandi

Da bambina amavo Roby Baggio. Era il codino, o che non sembrava un calciatore. A sei anni, forse intuivo in Roby Baggio qualcosa del fervente praticante di una spiritualità controversa, quella della Soka Gakkai. Mio nonno, napoletano, amava Maradona. Forse vedeva in lui una rivincita, un riscatto (il suo dalla povertà, quello del Napoli dalla serie B). Non sorprende comunque che, venticinque anni dopo, io mi sia fiondata sia su Il divin codino (Netflix), sia su Diego Maradona (2019, su Netflix, ma ho anche tentato Maradona: Sogno Benedetto, Prime Video). In questo momento molta della produzione televisiva è scritta, girata, pensata da miei coetanei che in alcuni casi provano a spiegare come siamo finiti qui. E lo fanno tornando agli anni della formazione, che nel nostro caso sono gli 80 dei video spaventosi sull’Aids, i 90 delle pubblicità, della Fininvest; il consumismo, la venerazione per gli oggetti e i primi accenni di ribellione in chiave New Age. Da spettatori, abbiamo bisogno di capire il presente attraverso il recente passato, e i produttori rispondono dandoci dati su dati, content su content. Documentari, docu-serie, filmati d’archivio (che abbondano), interviste a chi c’era e già aveva una coscienza, o a chi non c’era ma ha studiato fino a diventare esperto. Si tratta però spesso di prodotti visivi pieni di materiale che non riesce a trasformarsi in senso. Recentemente è successo con Wanna (Netflix), la storia di Wanna Marchi, una personalità di cui tutto ora ci scandalizza: vendeva un prodotto che aveva battezzato “lo scioglipancia”; poi vendeva numeri del lotto, insieme a un pioniere della frode spirituale che si faceva chiamare Maestro Do Nascimiento, e che davvero veniva da una famiglia che praticava la religione afro-brasiliana Candomblé (un’ambiguità non approfondita dal racconto); infine ha cominciato a fare estorsioni, profilando dall’enorme database accumulato negli anni le persone più fragili, chiamandole e convincendole che dovevano essere liberate dal malocchio. I “rituali” costavano milioni di lire, e alcune vittime hanno dato tutto, perso tutto. Ma di Wanna Marchi, e della figlia Stefania Nobile, un duo inscindibile, non è rilevante solo l’attività criminale. Wanna ci interessa come storia perché era inserita in un mondo, quello in cui le televendite erano nuove come dieci anni fa i social network. Un mondo in cui giravano parecchi soldi (o questa era l’impressione), e si pensava di poterne avere sempre di più, per cui spendere l’equivalente di 40 euro per dei numeri del lotto non era così folle. Nel 2020 l’Italia era al ventesimo posto fra i paesi Ocse per pil pro capite. Ma nel 1989, in quella stessa classifica eravamo al dodicesimo posto. Eravamo cioè un paese ricco: eravamo altro. Questo mondo, la serie Wanna non prova neanche a raccontarlo. Sia a livello di forma sia di contenuto, insiste sui tratti morbosi di questi due personaggi (primi piani insistenti, “scleri” catturati in camera e integrati nel montato, l’esperto che offre la sua chiave di lettura: sta tutto nel rapporto tra madre e figlia). Come se avessimo bisogno di convincerci che queste due non erano poi del tutto a posto. Non dice niente della prima televisione “colorata”, cioè delle nuove abbaglianti reti private, dell’effetto che potevano avere su un pubblico abituato alla Rai degli anni 70.

Niente di cos’era la bellezza allora, e quali erano i sogni. Non ci aspettiamo trattati storici da queste docu-serie, ma per esempio la serie Sanpa Luci e tenebre di San Patrignano (Netflix) dava una forma e un ritmo alle testimonianze raccolte, una forma coerente con alcune intenzioni a monte dell’opera. Anche Sanpa non prende una posizione precisa – e per posizione non si intende un giudizio etico, ma un punto di vista dal quale raccontare, un angle – però rievoca un senso di vuoto, la concretezza della droga in un mondo che non era pronto a vederla, l’inazione dovuta alla morale benpensante, un senso di impotenza non diverso da quello che ci colse nel febbraio 2020 di fronte ai crescenti casi di Covid.

Sanpa mantiene la complessità di quella storia, istruisce e ricostruisce. Però qualche risposta, necessariamente soggettiva, va data; abbiamo bisogno di dare un senso a quegli anni e a quelle esperienze, e questo non può che nascere dal racconto di un narratore o di una narratrice. All’epica deve seguire il romanzo. Ma a quel documentario non sono seguite altre opere che raccontassero quel tempo, è rimasto un caso televisivo isolato. La grande ossessione della produzione artistica italiana resta la famiglia, troppo spesso sganciata da una consapevolezza sociale: come se davvero ogni famiglia fosse infelice a modo proprio e non invece un prodotto dei tempi e delle dinamiche di classe.

Per quanto riguarda i prodotti televisivi, la mancanza di un punto di osservazione e di una visione autoriale impedisce anche di suscitare in noi vere emozioni, di procurarci una catarsi, una rielaborazione di quello che furono gli anni in cui eravamo bambini. Solo Paolo Sorrentino, in E’ stata la mano di Dio, ha detto davvero qualcosa sui tempi di Maradona. Non si pretende dai prodotti commerciali di Netflix la stessa qualità del cinema d’autore, ma almeno un metodo, un’intenzione di andare oltre il dato e il verbatim da confessionale, pur nel genere documentario.

Vale anche, forse soprattutto, per le serie americane: introducono una serie di elementi, che spesso sono quelli di moda, in attesa di un senso che viene giustapposto a posteriori (spesso sui social, dove un influencer-critico applica il senso e gli altri ripetono). Le metriche che vengono applicate sono quelle del senso di empowerment, dell’inclusione, della rappresentazione. Ma queste sono condizioni di base, non categorie critiche.

Alcune delle produzioni che negli ultimi anni sono invece riuscite a veicolare un senso, a raccontare una storia che coinvolge anche le emozioni e non risponde soltanto a una checklist di temi sono alcune serie di formazione. Nel 2020 We Are Who We Are (Sky) e ora Prisma (Prime Video). Forse nelle storie “di ragazzi” si ha una maggiore attenzione al fattore emotivo, perché il pubblico più giovane difficilmente resterebbe agganciato altrimenti, non è incantato dalla nostalgia e non si accontenta dei temi.

Cosa fa sì che alcune serie riescano a raccontare il presente o un’epoca o un’esperienza universale come il diventare grandi? Le storie di formazione sono tali perché contengono al loro interno uno sguardo adulto, o uno sguardo che un piede nell’età adulta l’ha messo. Così We Are Who We Are (regia di Luca Guadagnino e soggetto di Paolo Giordano) dà una sostanza al senso giovanile di sradicamento, di non appartenenza, sia attraverso l’ambientazione nella sede militare di Chioggia – un non-luogo che incontra il luogo per eccellenza, la provincia – sia attraverso una scoperta dell’identità e della sessualità in termini contemporanei. In Prisma (di Ludovico Bessegato e Alice Urciolo, autori tra l’altro anche di Skam Italia) c’è, dai dialoghi alle scelte di regia, una luminosità, un respiro che ci fa sentire che l’adolescenza non è solo strazio, o non lo è per chi la vive oggi. Ragazzi che sono a loro agio col corpo, che si parlano (o si scrivono) di più rispetto a un tempo, e quindi assottigliano l’elenco di ciò che pare “anormale”. Inserita in una trama semplice e credibile, la loro normalità ci appare autentica, qualcosa che proviamo con loro. In questo senso ricorda Normal People (Bbc/Hulu, dal romanzo di Sally Rooney), una serie in cui il tormento giovanile è decisamente maggiore, ma che mostra quanto è ampio il ventaglio delle esperienze umane che è possibile accogliere in sé.

Nel grande insieme di ore e ore che passiamo a guardare content, il pericolo è di appiattire il nostro senso critico e accontentarci del materiale raccolto, o meglio di guardare materiale convinti che costituisca un’opera, solo perché ha fatto uno sforzo compilativo o qualche collegamento psicologico (Hai preso le pillole, White Hot, Il truffatore di Tinder, The social dilemma…). In Prisma non ci sono psicologismi. I protagonisti – due ragazzi gemelli di sedici anni interpretati da Mattia Carrano – sono impegnati a vivere e a fare. Andrea è un duro che apre le bottiglie di birra coi denti, Marco è troppo timido per andare a parlare con la ragazza che gli piace. Da questa prima scena potremmo trarre delle conclusioni, ma proprio perché la realtà è più complessa di così, è Andrea a chattare in segreto con Daniele, nascosto dietro a un profilo femminile. Daniele a sua volta è il “bad boy” che fuma le canne e vuole fare il trapper, ma anche il ragazzo che fatica a staccarsi dalla squadra di nuoto, da quella disciplina che gli ha dato dei confini all’interno dei quali crescere e, infine, da abbattere. La storia fra Andrea e Daniele è la più appassionante per lo spettatore, ma non è totalizzante, perché questo non è più il tempo di boy meets girl, delle favole o commedie romantiche classiche, e i ragazzi stessi non sono più ossessionati da un’idea univoca di amore. Così il nostro cuore di spettatori può fare spazio anche alla storia di Andrea e Nina, che seguendo una poesia vanno in gita a Roma e aprono la porta di un mondo nuovo. Ci sono quindi i temi di oggi (Lgbt, bullismo, sostanze, abilismo) ma non sono presentati come in un libro di testo moraleggiante. Sono vivi e relativi come i ragazzi di quell’età, e la loro realtà non è qualcosa che noi dobbiamo “accettare” ma con cui possiamo immedesimarci. In questo senso Prisma è una serie luminosa, perché svela e dà respiro a qualcosa che è evidente nei giovani ma in fondo è profondamente umano, ci riguarda tutti. Riempire di senso le parole usurate (come fluidità) non è facile, ma è qui che la migliore televisione punta e a volte fa centro.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.